Federico Fubini, la Repubblica - Affari & Finanza 24/2/2014, 24 febbraio 2014
L’ANTITRUST FANTASMA CARTELLI E SPOT INGANNEVOLI NESSUNO LI PERSEGUE PIÙ
L’ annuncio è apparso in una rivista specializzata per avvocati di Bruxelles, non sul sito dell’Autorità garante per la Concorrenza e per il Mercato di Roma: in Italia un’associazione di albergatori si è ribellata. Di recente, ha presentato un ricorso formale all’Antitrust in Italia contro Expedia e Booking.com, due fra i più popolari sistemi online di prenotazione di hotel. L’accusa prende di mira le politiche di prezzo delle grandi piattaforme globali di viaggio. Sono dettagli come questi che a volte rivelano di un Paese e della sua economia più di un intero rapporto del Fondo monetario internazionale. E non c’entra tanto il fatto, di per sé molto rilevante, che il turismo è un settore vitale dell’export italiano senza il quale una vera ripresa è impossibile. C’è anche un altro aspetto: qualcuno finalmente protesta. In un Paese nel quale le pratiche di cartello fra produttori, gli abusi di posizione dominante e i monopoli evitabili abbondano, il ricorso degli albergatori ricorda all’improvviso che esiste - anche qui - un’Antitrust. G li italiani se n’erano quasi dimenticati, e non solo perché le consorelle tedesca o britannica dell’Autorità guidata da Giovanni Pitruzzella già da tempo danno filo da torcere a Booking o Expedia con accuse di pratiche commerciali collusive o elusive a danno dei consumatori e degli operatori. In Italia non era successo, come se il turismo fosse un settore importante
in Germania o in Gran Bretagna ma non qui. L’Autorità, da sola, non si era mossa con indagini e magari visite a sorpresa presso le imprese sospettate di comportamenti scorretti. È per questo che il ricorso degli albergatori d’improvviso ha ricordato a tutti questo silenzio assordante. Abbiamo un’Antitrust, ma ce ne stavamo dimenticando. I numeri parlano da soli di un declino continuo delle sue attività. Passi per le istruttorie sulle concentrazioni fra imprese, che sono scese da 864 nel 2007, a 459 nel 2012 e a 80 nel 2013: la frenata riflette senz’altro gli effetti della doppia recessione, durante la quale le fusioni e le acquisizioni fra imprese si sono molto ridotte. Ma che dire delle indagini per intese anti-concorrenziali fra imprese? Furono 12 nel 2004, durante la presidenza di Giuseppe Tesauro, salirono a 11-13 negli anni successivi, sono state solo 4 nel 2012 e 8 l’anno scorso. Stessa tendenza a scemare, se possibile anche più accentuata, nel terzo settore vitale per tenere un’economia aperta e competitiva: i procedimenti per abuso di posizione dominante, appena cinque l’anno scorso. Ora i casi sono due. O l’Italia è un’economia fluida e aperta a concorrenza perfetta, dove le imprese non si mettono d’accordo in segreto a spese dei consumatori né ci sono abusi di posizione dominante da parte delle società locali di servizi pubblici. Oppure l’Autorità che dovrebbe vigilare su questi abusi sta tenendo i motori al minimo. Un esempio? Si è persa memoria dell’ultima volta in cui l’organismo guidato da Pitruzzella ha lanciato un raid nelle sedi di imprese sospettate di fare cartello. Nel frattempo, i colleghi di Pitruzzella che siedono a Bruxelles, nel Bundeskartellamt di Bonn, a Londra o a Parigi lanciano costantemente questo tipo di inchieste basate sulle segnalazioni dei «pentiti». Davvero siamo un Paese così ligio alle regole di concorrenza che non c’è neanche bisogno di indagare? Qualche dubbio viene se si guarda ai costi delle assicurazioni Rc Auto fra i più alti d’Europa, a quelli dell’energia di oltre il 20% superiori alle medie dell’area euro o a rincari del 50% dei servizi locali a fronte di aumenti medi del 15 nel resto d’Europa. Ancora maggiori perplessità sorgono ogni volta che i prezzi della benzina salgono rapidamente al rincarare del barile di petrolio, ma scendono solo con grande lentezza quando invece il prezzo del greggio va giù. Eppure, malgrado le anomalie del sistema dei prezzi in Italia, l’Antitrust è scivolata in una progressiva irrilevanza. Di lei non parla più nessuno, neppure coloro che dovrebbero gestirla. Prendiamo il caso dei blitz nelle imprese a caccia di prove di intese di cartello a danno dei consumatori: in Italia non se ne fanno se non su indicazione e per conto della Commissione europea. Non è difficile capire perché: queste attività ispettive sono efficaci solo se c’è un «pentito» che teme di essere scoperto, pagare una multa salata o finire in prigione. In Italia il programma di clemenza è partito solo nel 2006, con forte ritardo rispetto alle altre authority europee. E da allora è stato utilizzato solo in una manciata di casi, per lo più poco rilevanti per l’economia in generale: intese anti-concorrenziali sui prodotti cosmetici o sulle bombole di gas Gpl. In Italia non ci sono «pentiti» del mondo delle imprese che permettano di lanciare le indagini contro la cartellizzazione dell’economia. Le imprese e gli imprenditori non si denunciano a vicenda ma contano gli uni sul silenzio degli altri. Ed è razionale che lo facciano, perché la lotta alla criminalità insegna che i pentiti diventano tali solo quando hanno qualcosa da temere. Non esiste dissuasione senza sanzioni efficaci, pecuniarie o detentive che siano. Uno dei problemi dell’Antitrust è che, nel silenzio di coloro che dovrebbero imporle, le sanzioni non fanno mai paura. Le multe sono poco più che simboliche, tali che correre il rischio della frode vale la pena. Non è colpa del legislatore né si tratta un destino ineluttabile, perché il diritto comunitario dà potere alle Autorità Antitrust di imporre alle imprese sanzioni fino al 10% del fatturato. Però questo non accade quasi mai, e quando capita i Tar finiscono nella gran parte dei casi per graziare l’impresa condannata. Per le imprese in Italia collaborare con la giustizia che vigila sulla concorrenza leale non serve, perché fare cartello funziona. Non dipende solo dalla distrazione dei vertici dell’Autorità, sempre più visibile da quando Tesauro ha lasciato il posto prima a Antonio Catricalà e poi a Pitruzzella. Il Consiglio di Stato ha dato un prezioso contributo: ha escluso l’intero settore delle telecomunicazioni dalla vigilanza sulle pratiche commerciali scorrette. Come non bastasse, gli incentivi all’Antitrust a dare multe sono stati eliminati: in passato l’Autorità poteva incassare parte delle multe erogate, mentre ora si finanzia solo in modo non selettivo tassando allo 0,06 per mille il fatturato delle imprese con fatturato sopra i 50 milioni. E il fatto stesso di vivere grazie al contributo «trasversale» delle imprese non fa accrescere il senso di vulnerabilità e la timidezza di coloro che su di esse dovrebbero vigilare. Anche nella qualità dei casi il declino delle attività dell’Agcm risulta evidente. Con Giuliano Amato e Tesauro alla presidenza, furono affrontati casi vitali per l’intera economia: i procedimenti contro i benzinai e i petrolieri (poi disfatti dal Consiglio di Stato), quelli contro l’Eni nel caso Blugas-Snam per l’apertura del mercato del gas, le accuse al cartello Rcs, le indagini su elettricità o telecom, le condizioni stringenti imposte a Mediobanca e Generali. Erano casi il cui esito interessava decine di milioni di consumatori e punti nevralgici dell’economia italiana. Anche quando la giustizia amministrativa li fermava, davano l’idea che la polizia era nelle strade e eventuali infrazioni non sarebbero state tollerate. Oggi invece l’Antitrust di Pitruzzella ricorda una polizia stradale che si tiene alla larga dalle principali arterie del traffico. I suoi casi riguardano «il divieto di importazioni parallele di Enervit» (le barrette energetiche) o la collusione sugli appalti Rai per i servizi di montaggio delle riprese: violazioni evidenti, ma infinitesimali rispetto agli sprechi e alle turbative d’asta della televisione di Stato. Nel frattempo le autorità in Francia o in Germania vigilano e indagano sulla grande distribuzione, il settore agroalimentare, le telecomunicazioni, l’energia, le forniture ferroviarie o il costo dei farmaci più importanti. Perché stupirsi dunque che quelle restano economie più competitive, nelle quali il potere d’acquisto delle famiglie è tutelato molto meglio? A discolpa dell’Antitrust italiana, milita il fatto che negli anni è stata metodicamente caricata di mansioni non sue che ormai assorbono il lavoro di metà del personale. La vigilanza sui conflitti d’interessi è risibile in un Paese che non si è dato una legge adeguata e attraversato nell’indifferenza di molti il ventennio berlusconiano. E il «rating di legalità», una certificazione dei trascorsi giudiziari delle imprese, sembra l’ennesima, inutile invenzione burocratica. Non che a Pitruzzella i mezzi manchino, e non solo per i compensi da 450mila euro l’anno, in deroga al tetto di 300mila imposto al resto della funzione pubblica. L’articolo 21 bis della legge sulla Concorrenza gli permette di impugnare liberamente ogni atto distorsivo del mercato a livello locale. Basterebbe cominciare dall’affidamento di servizi pubblici senza gara a società pubbliche o semi-pubbliche, dalle concessioni affidate e poi prorogate sempre senza gara, da certe convenzioni nella sanità privata o dagli affidamenti esclusivi a certe imprese nel trasporto pubblico. Ma niente accade. Pitruzzella, un costituzionalista senza alcuna particolare esperienza in temi di mercato, fu nominato nel 2011 su iniziativa dell’allora presidente del Senato Renato Schifani. In ossequio alla legge, poté insediarsi senza neppure sostenere un’audizione pubblica preliminare di fronte al parlamento: un’abitudine impensabile a Londra o a Bruxelles. E oggi deve aver deciso di concorrere, liberamente, per la prossima edizione di «Chi l’ha visto».