Gianni Mura, la Repubblica 24/2/2014, 24 febbraio 2014
L’ARCHITETTO BALLERINO MAESTRO DEL LANCIO LUNGO “MA LA TECNICA E’ SPARITA”
L’ARCHITETTO BALLERINO MAESTRO DEL LANCIO LUNGO “MA LA TECNICA E’ SPARITA” –
Stemma di La Coruña: teschio e tibie, a ricordare che l’estremo ovest della Spagna ha un tratto che si chiama Costa della Morte. E sette cappesante, a ricordare san Giacomo di Compostela. E la torre di Ercole, il faro alto sulla scogliera. In calle Hercules è nato e cresciuto Luis Suarez Miramontes, che di erculeo nulla possedeva quando dalla Galizia arrivò a Barcellona, poco più che ragazzo. Piuttosto gracile, secondo l’allenatore Ferenc Platko, che per lui fece installare un punching-ball negli spogliatoi. Ma il ragazzino aveva già un bel carattere: «Sono arrivato qui per fare il calciatore, non il pugile», disse, e il punching-ball sparì.
I giornali lo chiamavano “el gallego dorado”. Alfredo Di Stefano, suo ottimo amico al di là della militanza nei blancos di Madrid, lo ribattezzo El Arquitecto. E i tifosi interisti Luisito. Per i meno anziani, dirò che lo considero tra i migliori arrivati qui dall’estero, un 10 atipico per quei tempi. Il 10 da sempre ha contraddistinto un giocatore molto tecnico ma spesso non molto portato alla corsa. Luisito correva come pochi, aveva una tecnica eccellente e dirigeva l’orchestra con la massima naturalezza. Era un po’ ballerino un po’ torero. E nelle foto giovanili si nota una certa somiglianza col poeta Garcia Lorca.
«Dice? Non ci avevo mai pensato. Però posso garantire a chi volevo assomigliare, fino al punto di pettinarmi come lui, finché ho avuto capelli almeno. Il mio idolo era José Luis Panizo, il 10 dell’Athletic Bilbao, un biscaglino. Linea d’attacco: Iriondo, Venancio, Zarra, Panizo, Gainza. Diceva Gainza: se non c’è Panizo la squadra è come una barca senza timone». In Galizia di naufragi e lunghi viaggi sono esperti. «Mio padre Augustin aveva una macelleria in calle Hercules, una zona popolare abitata da pescatori e operai. C’era una fabbrica di armi, lì vicino. Ero troppo giovane per capire cos’abbia rappresentato la Guerra civile, poi è arrivata la seconda Guerra mondiale. I tre fratelli di mio padre sono partiti per Buenos Aires, molti galiziani negli anni ‘40 e ‘50 hanno scelto la rotta del Sudamerica, dell’Argentina in particolare». Dall’Argentina era rimbalzato in Galizia (via Italia-Argentina-Francia-Portogallo-Cile Messico) Alejandro Scopelli, attaccante che giocò nella Roma fra il 1933 e il ‘35, una partita anche in maglia azzurra, poi l’espatrio clandestino in Francia, con i compagni Guaita e Stagnaro nel timore di essere arruolato per l’Etiopia. È Scopelli il primo a credere in Suarez. Un solo campionato nel Deportivo e arriva la chiamata del Barcellona. «Che era un club molto meno ricco di oggi». Come tutti gli scapoli, Suarez dorme nella pensione della vedova Miranda, in calle Casanova, e mangia al ristorante Guria. Coi primi guadagni si compra una Renault Dauphine e apre col compagno Goicolea un maglificio, cedendone le quote quando si trasferisce a Milano.
Sia a Barcellona sia a Milano l’uomo del destino è Helenio Herrera. «Un grande, in anticipo sui tempi, ossessionato dalla velocità: di gioco, di reazione, di pensiero. Anche i suoi allenamenti: duravano la metà degli altri, ma alla fine eri stanchissimo per l’intensità che richiedevano. Preparava le partite con il massimo d’informazione, per quei tempi. Aveva amici e informatori ovunque. E sapeva come caricare i giocatori. A Bicicli disse che era forte come Garrincha. Forse quella volta esagerò. Io del Mago posso solo parlar bene, se non ci fosse stato lui non avrei mai accettato di spostarmi dalla Spagna. Sono stato il primo spagnolo a venire in Italia, l’anno dopo la Juve prese Del Sol. In quegli anni la Spagna era più povera dell’Italia, ma un calciatore stava bene, non si muoveva, come del resto nessun calciatore emigrava dal-l’Italia ».
Ma è vero che a Barcellona la tifoseria s’era divisa tra suaristas e kubalistas?
«Sì, ma non c’entravamo né io né lui. Kubala era più anziano di me e anche più massiccio, più attaccante. Era reduce da un infortunio serio, faceva fatica a ritrovare la condizione, così giocavo di più io. Ma eravamo amici e lo siamo rimasti. Fu lui a propormi come tecnico dell’Under 21 che vinse gli europei, e ancora lui a convocarmi, a 37 anni, per la partita d’addio con la Grecia».
È vero che Herrera vi faceva intonare una specie di “Venceremos” prima della partita e che un giorno Kocsis disse che nell’altro spogliatoio lo cantavano anche gli altri e dunque chissà come sarebbe finita?
«Con Kocsis dividevamo la stanza in ritiro. Un bravo ragazzo, semplice, spontaneo. È vero che disse una cosa del genere e che Herrera non gradì. Ma escludo che Kocsis volesse sfotterlo, povero Kocsis». Povero sì, a 49 anni gli diagnosticano un tumore allo stomaco e lui si butta da una finestra dell’ospedale Quiron. Ma passiamo a cose meno tristi. Il trasferimento dal Barça all’Inter.
«C’era da aspettare che l’Italia riaprisse le frontiere. Quando gioco la finale di Coppa dei Campioni a Berna col Benfica non sono al 100% e ho già firmato con l’Inter, Herrera e Moratti preferivano che a Berna non giocassi, ma io ci tenevo. Per la maglia, questo e altro. Vinse 3-2 il Benfica ed è uno dei pochi rimpianti che ho. L’1-0, Kocsis di testa su un mio cross da destra. Ci andò tutto storto: Kubala con lo stesso tiro colpì i due pali interni. E sì che avevamo eliminato il grandissimo Real. Il mio trasferimento: sui giornali giravano cifre a cui non credeva nessuno. L’Inter offriva 250 milioni di lire. Cominciarono a crederci quando Italo Allodi si presentò in sede col libretto degli assegni. E sganciò 250 milioni, che il Barça investì nell’ampliamento del Camp Nou».
E comincia l’avventura-Inter.
«Avventura è il termine giusto, perché nel 1961 non è che l’Inter fosse al vertice europeo. Ci puntava, per questo aveva preso il Mago e, di conseguenza, il Mago aveva convinto me, ma senza grandi discorsi. Poi s’è detto che io ero l’anima di quell’Inter, ma non è vero. Quell’Inter aveva molte anime, da Facchetti a Corso, da Picchi a Mazzola. Io ero l’esperienza, questo penso. Esperienza internazionale, anche. Al di là del nome del squadra e con l’eccezione di Herrera, nessuno all’Inter ne aveva come me. La stessa esperienza che mi ha portato a cambiare gioco, all’Inter».
Argomento interessante. Lei arriva in Italia come primo e sinora unico spagnolo ad aver vinto il Pallone d’oro. Questo perché Di Stefano era nato in Argentino. E nella classifica del Pallone d’oro sarà secondo nel 1961 e 1964, terzo nel 1965. Al Barça lei segna 61 gol in 122 partite, esattamente uno ogni due. All’Inter, 42 in 257, più o meno uno ogni sei. Non è un caso.
«No. In Spagna ero il 10 che fa assist ma segna spesso, diciamo un 10 alla Platini. All’Inter ho fatto il regista vero. C’erano due punte velocissime, Mazzola e Jair. Bastava servirli con il lancio lungo e andavano in porta».
Oggi il lancio lungo si usa poco. Perché?
«Perché pochi sono capaci di farlo. A me piacciono le squadre che vanno in porta con tre passaggi».
Quindi, non le piaceva molto il Barça di Guardiola.
«Quello sì, specie quando giocava in velocità. Guardiola ha imposto un gioco poco spagnolo, ma efficace, basato su una grande tecnica collettiva, e quindi non poteva non piacermi. Ma attenzione: nel calcio il problema non sono le grandi squadre, ma le loro imitazioni. Questo vale per il Barça di Guardiola ma prima ancora per il Milan di Sacchi e per l’Ajax degli anni ‘70. Molti hanno cercato di copiarlo con l’atletismo, con gli atletoni, senza capire che l’Ajax era fondato su una tecnica individuale molto buona anche nei difensori, penso a Krol e Suurbier. Senza tecnica non c’è calcio apprezzabile. Oggi, quando vedo tanti cross che finiscono dietro la porta cambio canale».
So che nel 2013 è terminata, come per altre vecchie glorie, la sua collaborazione con l’Inter e lavora per un gruppo finanziario messicano che organizza eventi, come si dice oggi, ma acquisisce anche cartellini di calciatori.
«Vero, com’è vero che in Bolivia a far firmare il contratto a Ronaldo sono andato io. E avevo anche in mano il precontratto di Messi col Barcellona, forse me l’avevano dato per fare alzare l’asta, non so. Tanto non sono riuscito a parlarne col presidente. Un giorno era in riunione, un altro era via, insomma ho capito la musica, amen».
Messi può diventare un grandissimo?
«Bisogna vedere cosa intendiamo per grandissimo. Per me ci sono solo tre calciatori che ci obbligano a guardarli dal basso verso l’altro. Sono Di Stefano, Pelé e Maradona».
E con l’Inter battè Di Stefano, a Vienna.
«Era il canto del cigno di Alfredo. Mazzola nel sottopassaggio mi disse che gli sembrava alto due metri. E Picchi continuava a dire: il Colonnello, guarda il Colonnello. Oh ragazzi, siamo qui per batterli, mica per chiedergli un autografo, dissi io. E li battemmo bene. Tagnin cancellò Di Stefano. Quando Alfredo andò verso la sua panchina per parlare con Muñoz, Tagnin gli andò dietro. E se adesso esco e vado a pisciare, che fai? gli disse Di Stefano. Ti seguo, rispose Tagnin. Ma dove l’avete trovato questo cagnaccio?, mi fece poi Alfredo a centrocampo. Se voi due uscite dal gioco, ci guadagniamo noi, gli dissi. Di quella sera non dimenticherò mai un particolare: la gioia negli occhi di Angelo Moratti. Mai più vista una gioia così negli occhi di una persona. Certo, anche noi giocatori eravamo felici, era la prima Coppa dei Campioni vinta, ma per lui era diverso, era l’ingresso dell’Inter nei quartieri alti d’Europa. Era il suo sogno che si avverava, dopo anni».
Poi arrivò il momento della separazione.
«Mi chiama il presidente Fraizzoli, allenatore era Heriberto Herrera. Il mister dice che tu e Corso non potete giocare insieme. E io: meno male che è arrivato adesso, sennò avremmo meno trofei. Poi gli ho detto: presidente, venda me. Ho 35 anni, Mariolino 29. Così mi sono ritrovato alla Samp col mio amico Lodetti. Lippi era un ragazzo. Però anche qui ho un rimpianto. Quell’estate, prima che firmassi per la Samp, venne a trovarmi Scopigno: Luisito, il Cagliari farà la sua prima Coppa dei Campioni, ho bisogno di uno come te e della tua esperienza. Grazie no, dissi. E forse sbagliai».
Se volessi comprare un calciatore in Europa, chi mi consiglierebbe?
«Rafinha del Celta Vigo, l’altro figlio di Mazinho ».
E se volessi puntare già adesso sul mondiale?
«Due squadre su tutte, Brasile e Spagna. Questo Brasile non mi entusiasma, ma gioca in casa e bisogna tenerne conto. Alle spalle un terzetto di quelle che ci sono sempre, o quasi: Germania, Italia e Argentina. Poi, per simpatia verso il bel gioco, mi interessano Belgio e Cile».
Italia perché?
«Non è fortissima, ma è competitiva. E poi le partite si cuociono a centrocampo, amo dire, e Pirlo è uno dei migliori chef in circolazione. La Juve non ha una superdifesa né un superattacco, ma ha un centrocampo fortissimo, portato a costruire, e già questo indebolisce la squadra avversaria, che deve preoccuparsi di contenere. Lo scudetto è suo. Però mi diverte molto la Roma, ha più varietà di gioco e un possesso palla che fa da specchietto per le allodole: appena ti scopri ti castigano. La Roma ha velocità e profondità. Con questo allenatore e qualche ritocco può crescere ancora. Quanto a Benitez, è coerente e ha una sua idea di attacco, ma per reggerla dovrebbe avere una difesa fortissima. Che non ha».
Le milanesi?
«Un momento così. Però mi lasci dire che soffro nel vedere tutte le squadre italiane piene di stranieri, lo dico da spagnolo che vive in Italia da più di mezzo secolo. Molti dovrebbero ricordarsi che le squadre italiane hanno vinto in Europa schierando due-tre stranieri al massimo. Ricordarsi e ragionarci sopra. Questo è un calcio senza identità. Un calcio in cui non basta chiamare esterno di centrocampo un terzino per trasformarlo in ala. Terzino era e terzino resta, come restano i cross che finiscono dietro la porta».