Andrea Monti, La Gazzetta dello Sport 25/2/2014, 25 febbraio 2014
SEEDORF: «IL MIO MILAN SORRISO»
Metti una sera a cena con Clarence Seedorf. Roba leggera naturalmente: branzino al sale, patate bollite, un filo d’olio, neppure un assaggio di vino anche se il Pinot bianco è sublime e ora che la palla s’è messa a girare per il verso giusto un piccolo brindisi ci starebbe pure. Tredici punti in sei partite, finalmente una media da Milan, e soprattutto due gare - quella sfortunata con l’Atletico e la trasferta con la Sampdoria - in cui l’idea rivoluzionaria di calcio totale che si porta dentro sin dall’esordio con l’Ajax non ancora diciassettenne, comincia a prendere forma ed equilibrio. «Per carità, non c’è ancora niente da festeggiare. E comunque mai toccato alcol, sempre pasteggiato ad acqua. Ora devo stare attento al fisico. Ho smesso di botto due mesi fa. Non sono più un giocatore, sono il tecnico. Mai scordarlo: altro allenamento, altre responsabilità, altra vita...».
L’immagine del leader In questa digressione apparentemente innocente c’è tutto il Professore, la sua portentosa capacità di accumulare esperienze senza subirne il peso, di chiudere un’avventura umana per riaprirne un’altra portandosi dietro solo lo stretto indispensabile: un’intelligenza nomade nutrita da una forte - ma non immotivata - concezione del sé. L’immagine del leader, in campo e fuori. Quella che, nell’era dell’impetuoso giovanilismo renziano, convince Berlusconi di avere nel calcio ciò che non ha ancora trovato in politica: l’uomo capace di rottamare le vecchie abitudini e di avviare un nuovo ciclo. «In Brasile stavo benissimo, l’ambiente mi riconosceva una professionalità – diciamolo, una serietà - che tanti miei colleghi non hanno. Il ritorno? Improvviso, più imprevedibile e meno contorto di quanto abbiate scritto, ma non inaspettato: con il Milan e i suoi dirigenti il filo della stima e dell’affetto non s’è mai interrotto». Ci provo: in fondo ha messo d’accordo Galliani e Barbara... Lui mi irride con un dribbling facile: «Se sono qui mi pare che l’accordo ci sia, o no?». Si ripete con Allegri e stavolta è un no look: «Di Allegri non parlo, non sarebbe corretto né elegante». Ma il muro del silenzio e una ruga sul volto che d’improvviso si fa di pietra raccontano più delle parole la storia di due tipi troppo diversi per capirsi.
Strategia anti-crisi Niente da fare, come al solito il pallino del gioco lo tiene lui e non lo mollerà per due ore. Calcio e vita, senza sbagliare un passaggio. Io non tocco palla o quasi. Il Professore non ama particolarmente i cronisti, al più li rispetta: «Nella mia carriera avrò speso al massimo cinquecento euro di giornali: so valutare le mie prestazioni e non mi piace essere influenzato. O criticato da chi non sa le cose: se uno gioca da vent’anni e in panchina per una volta indossa le ciabatte un motivo ci sarà...». Al tavolo stasera, impeccabile nella grisaglia fumo di Londra e camicia bianca, c’è lo stesso Clarence che ho ammirato in maglia e braghette: sorriso enigmatico, testa alta. Gli occhi mobili, rapidissimi, controllano di tanto in tanto il traffico del locale. Parte largo come gli piace, passo felpato, con una similitudine tra l’Italia e il Milan: ha trovato tutti e due tristi, senza più il sorriso. E lui ha in programma di riportarlo, a San Siro e non solo. «Occorre uscire dalla gabbia della crisi: non si tratta di essere positivi, basta essere realisti». Mi guarda dritto, vagamente sardonico: «Tu ce l’hai un piano?». Un piano? Azzardo una strategia minimalista: smettere di piangersi addosso. Troppo poco. «Io un piano ce l’ho ed è semplice. Voglio che i miei figli vivano in un mondo migliore di questo, in un ambiente fisico più sano e non inquinato, con valori più veri. A questo serve la mia fondazione Champions for Children, educare attraverso lo sport. E lo sport - non il calcio soltanto - è un veicolo formidabile anche per noi adulti. Smettiamo tutti di concentrarci sulle circostanze. Non mi interessa l’episodio, la recriminazione, la sfiga, il risultato parziale. Ciò che conta è il finale. Mi esalta l’essenza, la possibilità che il gioco di squadra trionfi per le ragioni giuste. Il valore dell’esempio, dal politico al giocatore all’allenatore, è un immenso collante sociale». Uno a zero, palla al centro.
La sfida Balotelli Approfitto della pausa e, a proposito di esempi, gli chiedo cosa ne pensi di Balotelli. Conferma: è la vera sfida. E non solo sul piano calcistico. L’Italia non è un Paese razzista, dice, al più abbondano i beceri ma questa piaga appartiene a tutto il mondo. «Mario in realtà è una persona squisita, dolce, sensibilissima. Si sente gravato di responsabilità enormi e, in fondo, non sue. Occorre sollevarlo, anzi liberarlo, dall’obbligo di rappresentare un simbolo. Restituire all’individuo il suo valore centrale significa sviluppare il potenziale umano con serenità. Errori compresi. Solo così diventerà un campione completo: quel giorno sarà una vittoria per me e tutti».
I maestri Il calcio per il Professore è questo: avventura umana e scuola di vita. La sua storia è un romanzo della modernità: nato 37 anni fa a Panamaribo nell’inferno-paradiso del Suriname, il suo bisnonno era uno schiavo e fu liberato da un padrone tedesco da cui prese il nome Seedorf. Infanzia in Olanda, debutto nell’Ajax, poi la Sampdoria, il Real Madrid, l’Inter, il Milan e infine il Botafogo. Un turbine di paesi, incontri, linguaggi (parla sei lingue correntemente). Unico calciatore ad aver vinto quattro volte la Champions League in tre squadre diverse, conosce l’importanza dei buoni maestri. «Ho cominciato con Van Gaal, un mito distante. Ho apprezzato enormemente Ancelotti, Lippi e Capello. Fabio è l’uomo che mi ha trasformato: con lui ho smesso di girare per il campo in cerca di gloria, mi ha dato una posizione, e soprattutto la convinzione che mi serviva per diventare un leader. Sì, i tre italiani hanno davvero qualcosa in più...».
Psicologia Un «quid», direbbe il suo presidente, che ora deve trasmettere a un Milan depresso da mille traversie e un po’ tristanzuolo. La prima fase, spiega, non è tecnica ma psicologica. «Devono ritrovare la convinzione in se stessi. Per questo, ho cambiato ritmi e consuetudini di allenamento. Voglio che giochino, ridano, si divertano. Nelle sedute tecniche non mi soffermo mai troppo sugli errori. Mostro loro soprattutto ciò che hanno fatto bene. Erano appena dieci minuti? Fantastico, possono diventare venti, poi trenta, e infine una partita intera. Bisogna partire sempre da ciò che funziona».
Sistema di gioco e noia Poi però vengono gli schemi, il sistema di gioco. Che cosa ha in mente? E qui il Professore si infuria: «Già il sistema di gioco, i numeri. Appassionano enormemente voi giornalisti, ne discutereste per ore. Ma sa qual è la verità? Che nel calcio moderno il sistema esiste solo nella fase difensiva. In quella offensiva c’è fluidità totale, sei giocatori che si muovono continuamente in sincronia senza dare punti di riferimento. Per questo le domande sul modulo di gioco mi annoiano...». Sbadiglia e sorride. Un caffè per finire? No, per carità. E allora, dove punta questo Milan? «Per ora a ritrovarsi, anche fisicamente. Poi si costruirà partendo dalle basi, dai giovani. Bisogna avere ambizione: solo in Italia ambizione è una parola sporca...». La società, assicura, ha un piano solido per il futuro. E ora anche un leader massimo - azzardo - proprio come quando stava in campo... «Sì è vero. Al Botafogo, per esempio, dicevo ai compagni devi fare questo e quest’altro. Un bel rompiballe. Alle volte mi ascoltavano, e le cose funzionavano. Alle volte no. Ora i giocatori devono darmi retta per forza, e magari un po’ per amore. In fondo è per il loro bene». Essere Clarence Seedorf: vi piaccia o no è il film dell’anno.