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 2014  febbraio 24 Lunedì calendario

GIROTONDO DEL PREMIO STREGA


Alla eccellente mostra di Giacometti nella Galleria Borghese, si discorre sull’allestimento. Sempre e caratteristicamente affusolate e filiformi, le sculture più alte nel primo salone, così è possibile girarci intorno. E le più piccole, bene illuminate, disposte contro fondali chiari, come già a Villa Medici tanti anni or sono. Per non confondersi, qui, col viluppo delle sculture. E là, per riverire il “vibrato” dei severi intonaci stabiliti da Balthus non soltanto sulle scalee di ascensione monumentale.
Già. Alberto Giacometti e Balthus. E come si rimpiange, adesso, di non aver chiesto all’amico artista e a suo fratello aîmé Pierre Klossowski dettagli su quell’andata a Soglio. Magnifico borgo tradizionale e patrizio, però invisibile dalla strada carrozzabile, ai piedi del Maloja.
Veramente, in quell’estate 1919, i due ragazzi erano stati affidati dalla madre Baladine al poeta Rainer Maria Rilke, invitato da un conte o principe Salis, proprietario nel suo palazzo di un albergo già allora esistente. E del resto quella Val Bregaglia era piena di palazzi Salis. Ma arrivando attraverso i Grigioni, e non da Chiavenna, di che cosa avranno parlato, con Rilke?
A Sils-Maria, a parte Segantini e la “chesa” di Nietzsche, e magari Thomas Mann non lontano, Proust (in
Les plaisirs et les jours) appassionatamente ricorda nomi quali Silvaplana, Celerina, Samaden, Julier... Giù dal Maloja, poi, ecco a Stampa il grande chalet della famiglia Giacometti. Allora, potenti patroni generali della pittura negli edifici pubblici svizzeri, col favore ecumenico dell’illustre Ferdinand Hodler. Parecchie loro opere si trovano al museo di Coira, capitalina grigionese grandiosa e ridente, nonché arcivescovado gotico tremendissimo nel Medio Evo. E naturalmente un palazzo Salis-Soglio quale sede del potere, presso la cattedrale dell’Assunta. Ma ancora a Stampa, accanto a quel grande chalet, ecco un caffè gestito dalla famiglia di Varlin, autore dello stupendo ritratto della padrona della Kronenhalle a Zurigo.
Forse risale a quel tempo l’importante amicizia tra Balthus e Alberto Giacometti? Rilke, da parte sua, si tratteneva «nel luogo più indisturbato, la biblioteca: con un tavolo massiccio, un magnifico seggiolone, una spinetta; e attorno, file di libri fino al soffitto, dove posso rovistare quanto mi piace».
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Al Gabinetto Vieusseux fiorentino, in Palazzo Strozzi, per la presentazione del “Meridiano” di Anna Banti, impossibile non ricordare la sua gestione personale e padronale (e manoscritta) di Paragone Letteratura.
Testimoniata dal suo volumetto di Lettere, al sottoscritto, edito da Archinto. E naturalmente, la retorica del “Quarto Platano” al Caffè Roma di Forte dei Marmi, ove Longhi e la Banti erano immancabili verso la fine del pomeriggio, con Pietrino Bianchi e Attilio Bertolucci e le consorti, Giuseppe De Robertis e Carlo Carrà ed Enrico Pea coi vecchi baschetti chiamati allora “Bordino”, promettenti giovani come Cesare Garboli, visitatori da Parma... E certo, era facile confezionare un numero di rivista con testi di Bassani, Calvino, Testori, Pasolini, Citati, Gadda...
A proposito di Gadda, c’era una bella storia vera. Anna Banti scende elegantemente dal “Tasso” in bicicletta. Come del resto Nicky Mariano dai “Tatti” di Berenson, per un aperitivo da Leland’s. E sempre impeccabile, va al cinema e poi dal parrucchiere, nei paraggi di Santa Maria Novella. Ai tempi delle Giubbe Rosse. Ma Gadda fu irremovibile, nel non permettere che una signora in bicicletta rientrasse da sola, come al solito. Così l’accompagnò a piedi a casa, in via B. Fortini 30, con la bicicletta a mano, malgrado le insistenze di lei. Lui tornò in città ovviamente a piedi. E poi si lamentarono moltissimo.
Quando, prima delle autostrade, si faceva Milano-Roma in macchina, dormendo a Firenze, c’era il piacere della colazione e conversazione con Longhi e Banti al “Tasso”, allora in campagna tra oliveti e vigne. Il Maestro amava canterellare «un catino – absidale – di Masolino – da Panicale», ed evidentemente si divertivano a pubblicare i couplets da cabaret letterario eseguiti al Teatro della Cometa per iniziativa di Mimì Pecci-Blunt. «Finiscono i bronci – ma non Maria Bellonci! – Neanche Goffredo – si prende un congedo – con questi Alberti – così contenti – ecco riaperti – i ricevimenti – di questo Premio Strega – che non si spiega – ma non si spezza – va avanti in bellezza...» Girotondo! «Si apre il salotto – arriva Cibotto – lasciando in ascensore – la Anna Salvatore – che manda avanti – Anna Banti – in cappellino e guanti – con Mario Soldati – che dice e ripete – a Pietro Citati – di avere un zio prete – identico a Buzzati... I libri in lizza – sono tanti – s’acchiappa una pizza – si chiede alla Banti – per chi votare – se è il caso di fare – un bel regalino – a Italo Calvino – piuttosto che a Tobino... Ma intanto un dubbio è sorto – se dare il Premio a un morto – che è meno cattivo – di qualunque vivo...» Girotondo! «Non dare il voto – al Lampedusa morto – è come fare un torto – al Milite Ignoto – del resto
Il Gattopardo – è un libro di riguardo – tutt’altro che in ritardo... – Facciamo una gran lega – a parte ogni bega! – Diamogli il Premio Strega!» La mostra recentissima agli Uffizi sul «Gran Principe Ferdinando de’ Medici collezionista e mecenate (1663-1713)» ha poi richiamato vive attenzioni non soltanto sugli eccelsi Foggini e Soldani Benzi ma ancora su un protagonista de La camicia bruciata.
E sulla consorte Violante di Baviera, che rimane a Firenze giacché «le si fa
presente che il suo dovere le impone di restare per ora a Palazzo riassumendo le sue funzioni ufficiali, a cui non può mancare. Non manca, infatti, sbalordita, affaticata, distratta, non certo raggiante di gioia come dovrebbe», scrive Anna Banti.
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A proposito di Joan Didion, posso ricordare che sono stato a casa sua con una cara amica che non c’è più, Camilla Pecci. E suo marito Earl, e una sedia a rotelle che venne presto ripiegata e messa nel baule del taxi.
C’era un gran cocktail party, in casa della Didion, con tanti giovani tipici da cocktail a New York che parlavano animatamente fra loro, e non si capiva se la conoscevano, o perché erano lì.
Aveva appena avuto la perdita dolorosa dell’amato marito, e non si sapeva ancora che l’elaborazione del lutto avrebbe preso una forma narrativa così straziante e superba. Avevo conosciuto il fratello di lui, John Gregory Dunne, che girava abbastanza fra Hollywood e Roma, e poi divenne celebre seguendo un famoso processo con una serie di puntate nel genere “fiction”. Anzi, a Hollywood, siccome d’estate si era senza cravatta, fece in tempo a disdire una colazione impegnativa in un posto chic, prenotando invece una tavola in un posto “no tie”. Ma non ne parlai, anche perché non sapevo i loro rapporti, e non era certo un momento di frivolezze.
Lei mostrava un’aria attonita, in quel bailamme di cocktail. E parlava pochissimo. Sono rimasto colpito, perché volle riaccompagnarmi cortesemente ringraziando alla porta. Da perfetta padrona di casa.
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Con Alice Munro ci si incontrò alcuni anni fa, a Pescara, per un premio internazionale intitolato a Flaiano.
Faceva un gran caldo, e quasi tutti ci eravamo tolti le giacche. Era tutto uno sventolìo di programmi, all’aperto, durante le esibizioni degli ospiti.
Ma lei appariva freschissima. Forse l’unica, quella sera. I volants della camicetta, perfetti, sul loro jabot.
Ripensandoci, forse aveva addirittura un cappellino?
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Sul benemerito Cartevive, della Biblioteca cantonale di Lugano, A. Castronuovo si chiede se esiste un Ultimo diario di Bino Sanminiatelli, o se non si confonde con un suo Ultimo tempo.
Che peccato, non averlo domandato a Sanminiatelli stesso. Scendeva dalla sua villa di Vignamaggio in perfetto soprabito di “casentino” arancione, con impeccabile collo di pelliccia, nella “sizza” invernale. E col bel tempo si conversava sui marciapiedi in via Tornabuoni, davanti a Doney o a una magnifica libreria, che non ci sono più. Appariva lieto di intrattenersi con un “collega” scrittore e lettore, ma altrettanto deciso nel non permettere di intromettersi, se qualche letterato fiorentino minore si azzardava a interloquire.
In Quasi un uomo, che gentilmente mi dedicò, si trova: «Ho lottato contro i signori che dicevano che ero un artista e contro gli artisti che dicevano che ero un signore ». E poi: «Il signor Ettore Schmitz fu considerato per molto tempo un commerciante: né signore né scrittore. Commerciante è meno impegnativo».
Ma avevo letto da tanti anni L’omnibus del Corso.
E nei paradisi perduti di quel vecchio gentiluomo figuravano ancora i ricevimenti di Lulù Primoli, e gli scarpini da ballo della “Accademia Pichetti”.
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Quante care memorie. Tomaso Buzzi, «il principe degli architetti», celebrato adesso per il design delle sue vetrerie da Venini, mentre sulla copertina del suo volume da Electa appaiono i suoi disegni a pennarello per l’ultimo ballo a Ca’ Rezzonico, nel ‘67. Quando piuttosto si guardavano dalla balconata Grace Kelly ed Elizabeth Taylor, dritte malgrado la pioggerella nelle cotonature del parrucchiere Alexandre, coi due mariti acquattati al riparo, in una confusione di approdi e gondole e motoscafi e parolacce venete.
Valori perenni... Dalla «petite folie» per Lilli Volpi divenne il «Volpaeum» sulla spiaggia di Sabaudia, col maître che suonava la tuba sulla scalea per annunciare la colazione, alla «petite Versailles » chiesta da Mimì Pecci per il suo Teatro della Cometa, e dunque con panche preziosamente foderate ma senza schienale. Dalla grandiosa Villa Pacelli al Forte dei Marmi a un appartamento per nani in un ammezzato davanti al Colosseo...
Ma ricordandolo a Leningrado nel 1964, con gli Amici della Scala e l’amica Idina Missiroli, «Fermi tutti!» ci intima sulla piazza più bella. «Fate così e poi così!», con gesti parallelepipedi. «Niente in asse con niente, fra pianterreno e primo piano! Ed erano architetti di Bergamo!».