Chiara Saraceno, la Repubblica 24/2/2014, 24 febbraio 2014
“SUL LAVORO UNA DONNA VALE LA METÀ DI UN UOMO”
LA CAPACITÀ di una società di produrre i beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni dipende dalla quantità, qualità e combinazione delle risorse a propria disposizione. Per questo il capitale umano viene sempre più frequentemente incluso tra le risorse economiche.
Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.
I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)? Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.
Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.
Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano — istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità — sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.