Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 23/2/2014, 23 febbraio 2014
LUCHINO VISCONTI “SONO COSTOSO? CHI MI VUOLE DEVE PAGARE”
Visconti, c’è una battuta di Luigi II di Baviera: “Voglio restare per me e per gli altri un eterno enigma”. Trova in queste parole qualcosa di suo? C’è, anche in lei, un po’ di mistero?
Io non credo però me lo attribuiscono. Tutti abbiamo, verso la gente, un lato impenetrabile, oscuro. Io vorrei avere con gli altri legami molto chiari. Luigi II non si conosceva; io ritengo di sapere cosa sono. Nelle mie opere tutto è molto evidente, non c’è ambiguità. So quello che voglio per gli anni che mi restano.
Che cosa l’aiuta a vivere? Il gusto della lotta, la gioia di fare? Qualcuno ha detto che nei suoi film non c’è speranza, ma soltanto decadimento e rinuncia.
Certamente mi soccorre il piacere di combattere, il desiderio di battermi fino in fondo. Lo dovremmo sentire tutti come compito; è un impegno. No, non è vero che nei miei racconti non c’è fede, non c’è sogno; bisogna saperli vedere. Sono storie di vinti, ma ha in mente La terra trema? “Oggi siamo stati sconfitti, ma domani saremo tutti assieme e ce la faremo”.
I suoi atteggiamenti, spesso, hanno scandalizzato le belle anime. Un esempio: Il conte Luchino Visconti fa il comunista.
Non sono responsabile di essere nato in un certo modo. E se fossi venuto al mondo con la pelle nera? I miei genitori mi hanno dato la testa, mi hanno insegnato a ragionare; non dovevo supporre che la condizione e il titolo significassero diritti, vantaggi, privilegi. Mia madre, del resto, era una borghese, figlia di industriali di origine popolare, che si erano fatti da soli. Un suo zio, Carlo Erba, andava in giro con un carrettino. Aveva inventato l’olio di ricino depurato. Una cosa orrenda, che da bambino mi obbligavano a trangugiare. Mia madre raccontava che la nonna adoperava, per fare il risotto, lo stesso calderone di rame che usavano in laboratorio per preparare il lassativo, e qualche volta si avvertiva anche il sapore dei semi: “Non lamentatevi” ammoniva “sarà la vostra fortuna”.
Le sue idee politiche hanno subito cambiamenti? Non mi sembra il tipo di militante senza problemi.
Molti, quando andai a Parigi a far l’aiuto di Renoir, che era parecchio a sinistra, capii tante cose. Prima ci mancava poco che diventassi fascista. Non sono stato d’accordo per i fatti d’Ungheria, ho discusso e sofferto per i carri amati a Praga, ma so che gli errori si correggono, che sono i principi, invece, che contano.
Tra i politici c’è qualcuno che le piace?
Molti dei politici di oggi hanno poco da dire e non lasceranno nulla alle nuove generazioni, che invece hanno passione politica e si ribellano a chiunque minacci la libertà. Sono stato molto amico di Togliatti: emanava candore, buona volontà, genialità, gentilezza. Era un vero intellettuale, raro in politica.
Chi è fascista?
È la gente chiusa a qualunque apertura di libertà, vorrebbero che tornassimo indietro di quarant’anni. Hanno delle formule, e tutto dovrebbe girargli attorno. Quando feci La caduta degli dei mi domandarono perché ero andato a cercare soggetto e ambienti in Germania. Dissi che il nazismo era un dramma e il fascismo spesso commedia, e anche melodramma buffo, e io volevo fare una tragedia, era partito addirittura da un Macbeth moderno: tanti morti e tanti massacri, dove li avrei trovati, se non fra i tedeschi?
Quali sono le miserie verso le quali è più disposto ad avere comprensione? Hanno scritto che detesta l’avidità e l’arroganza delle mezze calzette .
Esatto. E soprattutto l’ipocrisia, la falsità, e poi la mediocrità, non per disprezzo ma perché non sento di poter avere un rapporto.
Ha dei nemici?
Credo parecchi. Pensavo moltissimi, ma quando sono stato malato ho scoperto anche molti amici, e mi hanno circondato di affetto. Ho sofferto di ansietà, Marlene Dietrich mi scriveva lunghissime lettere sulla terapia da seguire. Mi dava un senso di benessere e sicurezza. La sua foto è sempre sulla mia scrivania.
Cosa rievoca con piacere: l’adolescenza, la Milano delle famiglie illustri, dei teatri, delle feste, poi la fine dell’epoca liberale, poi il 1940?
L’odore di Milano, che nessuno mi restituirà mai, era piena di giardini, le carrozze, il profumo che usciva dalle botteghe dei prestinai, lo stridio delle rondini verso sera, che volavano attorno a casa nostra, in via Cerva, le campane di San Carlo, i genitori che uscivano dal bar Canella. Mi verrebbe voglia di ricostruirla. Mia madre ci portava a passeggio sui bastioni, sento ancora l’odore dei cavalli. All’ora di cena, la luce del lampadario nella sala da pranzo andava giù. E mio padre diceva: “Hanno acceso la Scala”. Gli amori giovanili, sì, ma ne ho avuti anche dopo, e hanno coperto o annullato i primi. Queste, ecco, sono le più forti nostalgie.
Un’accusa di sempre: Visconti è costoso. Inscena “Come le foglie” e fa venire i campani delle vacche dalla Svizzera, le camicie per il principe del “Gattopard o” debbono essere di Londra. Pare che il suo modello sia stato lo straordinario e dispendioso Erich von Stroheim. È importante, per un attore, camminare su un parquet di larice invece che di abete?
Sono le sciocchezze che dicono ogni tanto. Conta, magari, che sia di legno invece che di marmo, perché il suono ha valore come la fotografia. Sono costoso: e perché non dovrei esserlo? Per far piacere a chi? Chi mi vuole paga.
Parlando con il giornalista francese Léon Zitrone lei ha detto che gli attori sono dei cavalli di razza, dei purosangue. Com’era Burt Lancaster? E Delon? Helmut Berger, Mastroianni?
Sono tutti diversi. Lancaster è un grande professionista di tipo americano. Delon è latino, europeo, più estroso, meno marcato dal metodo, Berger è un giovane puledro pieno di estro, ha qualità, ma deve ancora farsi i muscoli. Mastroianni dolce e gentile, Delon e Berger imprevedibili nei loro umori.
Lei ha detto che è più facile scoprire il talento degli uomini e farebbe eccezione soltanto per Callas. Perché?
Perché Maria è un mezzo uomo, uno strano temperamento. Tigre e belva sono termini un po’ cretini, ma è selvaggia. Diciamo: la Magnani è una grandissima attrice, la Mangano una grande donna, Romy Schneider è molto interessante, ma difficile da manovrare. Ogni tanto un paio di sculacciate le farebbero bene.
Cosa occorre per diventare un buon regista?
Soprattutto essere umani.
Ha avuto stroncature che l’hanno ferita?
Soprattutto disturbato, perché non abbastanza chiare per essere utili.
Per lei l’amicizia cos’è?
Una cosa capitale; perché si fonda sulla fiducia. Senza non si può vivere. È importante come l’amore. Cosa apprezza di più in una persona? L’ingegno, la bontà, il carattere? La lealtà. Nel “Gattopard o” c’è forse un po’ di autobiografia? E il nome che porta le ha mai pesato?
L’hanno detto, ma non mi sembra. Sono così lontano da quel signore. Il mio nome mi ha annoiato quando è stato preso troppo sul serio. Mi è servito ad avere un buon posto in vagone letto, ecco.
In ogni vicenda ci sono giornate memorabili. Nella sua?
La malattia. La Resistenza: eravamo soli con i nostri pensieri, con i nostri sogni. La liberazione di Roma: ci sentivamo tutti fratelli. Non tornerà mai più.
Ha delle ansie? La solitudine è stata una sofferenza?
No. La solitudine a volte è una buona compagna: un breve ritiro esige sempre un felice ritorno. Amo vivere da solo, circondandomi di chi voglio.
Con Dio, in che rapporti è?
Buoni, diretti, senza intermediari, che possono combinare guai. Esiste: è dentro di noi.
Tra tutti i personaggi che ha conosciuto, a chi vorrebbe assomigliare?
A nessuno. Mi interessa essere me stesso, coi miei difetti. Ho ammirato certi artisti come Toscanini. Un modello.
Ogni mattina, quando si sveglia, che cosa si aspetta?
Il fisioterapista, e mi fa piacere che venga, perché quella fatica vuol dire la ripresa della mia vita fisica.
Lei si fissa dei programmi?
Sì. Uno solo. Andare avanti. Dopo la malattia posso camminare, parlare, leggere e dirigere il mio film. Ho la necessità fisica del mio lavoro: quando non realizzo nulla, mi prende la tristezza.
Dietro, alle sue spalle lei ha un quadro del pittore toscano Galileo Pini, amico di Puccini, per lui disegnò le scene di Manon e di Turandot. Rappresenta un giovane che ha le ali, e precipita in un mare immobile e terso. Un angelo caduto?
No. È Icaro. Bello, vero?
Sì. Nel suo volto non c’è sgomento. Bisogna conservare fino all’ultimo le proprie illusioni.
Bisogna non arrendersi. Vede dottor Biagi oltre alle tende di lino, c’è il verde della primavera, la natura sta fiorendo e il sole mi dà vita, gioia come mai prima.