Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 23/2/2014, 23 febbraio 2014
L’ITALIA CORRE VERSO LA DEFLAZIONE
L’Italia sta finendo - mani e piedi - dentro alla deflazione. Non per la discesa dei prezzi. Ma, per via della riduzione degli impieghi, che in una economia fragile e bancocentrica diventa il veicolo principale con cui si propaga questo virus. Il Centro Europa Ricerche ha elaborato un indice di vulnerabilità per l’Italia, adoperando la stessa metodologia del Fondo monetario internazionale. Questa metodologia è basata sull’analisi delle concause che provocano la deflazione: la variazione dei prezzi, che costituisce soltanto uno degli elementi di questo fenomeno molteplice e dalla non semplice interpretazione, la variazione dell’output gap (la misura di scostamento del prodotto interno lordo dal suo valore potenziale), la dinamica del Pil nell’ultimo triennio, gli andamenti degli indici azionari, la variazione del cambio effettivo reale nell’ultimo anno, l’offerta di moneta e la variazione del credito. «Nel modello del Fondo monetario internazionale - rileva Stefano Fantacone, capoeconomista del Cer - una elevata intermediazione creditizia è considerata un fattore di approfondimento del rischio deflazione». Per questa ragione, quando un sistema economico nazionale ha quale suo cardine le banche, l’indice di vulnerabilità alla deflazione viene aggiustato aumentando il coefficiente di ponderazione assegnato alle variabili creditizie e abbassando i coefficienti delle altre variabili. L’Italia, per il suo profilo storico che negli ultimi anni ha assunto un tratto ancora più marcato, non può non rientrare nel novero delle economie bancocentriche. Anzi, questo suo profilo ha un carattere quasi esasperante. Nel nostro Paese il credito bancario al settore privato ammonta al 123% del Pil, mentre la capitalizzazione del mercato azionario vale il 24% di quest’ultimo (dati 2012); senza considerare gli esempi anglosassoni, prendendo invece due economie nazionali di matrice vetero-continentale e in cui gli istituti hanno pesi specifici e strategici di grande rilevanza, in Germania il credito bancario al settore privato è rispettivamente al 101% del Pil e la capitalizzazione del mercato azionario è al 43 per cento del Pil. La Francia è rispettivamente al 116% e al 69,8 per cento. Dunque, l’indice di vulnerabilità per l’Italia ha da essere ponderato con la sua natura bancocentrica. Questo indice è espresso in una scala compresa fra zero e uno. Fra 0 e 0,2 il rischio è definito minimo. Fra 0,2 e 0,3 è basso. Fra 0,3 e 0,5 è medio. Sopra lo 0,5 il rischio deflazione diventa alto. Nel 2009, primo anno della estensione globale della crisi, il rischio è stato minimo nel primo semestre, diventando basso nella seconda parte dell’anno. Nel 2010 e nel 2011 è tornato minimo. Nella prima parte del 2012 l’indice ponderato è rimasto minimo. Nel secondo semestre si è impennato fino a diventare medio. Nel 2013, invece, questo rischio è diventato alto. «L’elemento di grande interesse di questo modello interpretativo - riflette Fantacone - è che l’indice ponderato segnala appunto un alto rischio di deflazione prevalentemente a causa degli andamenti del credito. La riduzione degli impieghi sarebbe, dunque, il fattore che più di altri indebolisce l’economia italiana». Fino al primo semestre del 2012 - qualunque sia il tipo di rischio che corra o non corra l’Italia in fatto di deflazione - l’andamento dell’indice ponderato ha quale causali principali la (non) crescita del Pil e gli andamenti del mercato azionario. Poi, che la vulnerabilità al problema della deflazione sia bassa, questa è un’altra cosa. Ma la radice del comportamento dell’indice è rappresentata appunto da Piazza Affari e dal valore aggiunto nazionale. Nella seconda parte del 2012, tutto cambia. La vulnerabilità alla deflazione diventa media? Nel peso delle determinanti, oltre il 60% è rappresentato dal credito bancario, che dunque assume una valenza fondamentale nella costruzione di un clima - in quel periodo mediamente - deflazionistico. In questa dinamica, che inizia a favorire lo sviluppo del morbo della deflazione, per un 20% pesa l’asfittico andamento del Pil e per poco meno quello del mercato azionario. E le cose precipitano nel 2013, quando l’indice di rischio deflazione per la nostra economia diventa alto attestandosi a 0,6. In questo caso il peso della determinante creditizia nell’indice ponderato sale al 70 per cento: l’andamento asfittico del Pil conta per non più del 10% e quella dell’output gap per poco meno del 20 per cento. Dunque, secondo l’adattamento al caso italiano del modello del Fondo Monetario, fra le molte concause che strutturalmente generano il pericoloso frutto della deflazione, per una volta una prevale su tutti: le scelte quotidiane delle banche allo sportello, quando (non) concedono finanziamenti alle imprese per le ristrutturazioni e gli investimenti e (non) danno mutui immobiliari alle famiglie.