Alessandra Farkas, La Lettura, Corriere della Sera 23/2/2014, 23 febbraio 2014
CHANDLER, CAPITOLO 13 . PERCIÒ SCRIVO
[Michael Connelly]
«Non sarei mai diventato uno scrittore se non avessi letto il tredicesimo capitolo de La sorellina di Raymond Chandler. Quel capitolo è poesia pura e ancora oggi, prima di iniziare un romanzo ambientato a Los Angeles, devo rileggerlo». Il 57enne maestro della crime fiction Michael Connelly apre le porte del suo appartamento con vista mozzafiato su Central Park South a Manhattan (una delle sue tante case, oltre a quelle di Los Angeles e Tampa) per parlare de Il quinto testimone — nelle librerie italiane il 25 febbraio, edito da Piemme —, nuova avventura dell’avvocato Mickey Haller con un cammeo del detective Harry Bosch, suo mentore e fratellastro, protagonista di diciotto bestseller. Sfidando l’etichetta azzimata di uno degli indirizzi più costosi di Manhattan, Connelly ostenta il look super-casual (pantaloni di felpa e maglietta grigi) che i newyorchesi snob chiamano «Florida style». E invece di promuovere i suoi libri, ha voglia di parlare del suo eroe. «In quelle meravigliose pagine del tredicesimo capitolo — riprende — Chandler riesce a fondere in maniera esemplare il carattere di un luogo, la città di Los Angeles, a quello del protagonista, il detective Philip Marlowe. Fu dopo aver letto il libro che dissi ai miei genitori: “Voglio fare il giallista, non l’ingegnere”». Il suo Bosch debutta a marzo nell’episodio pilota di Amazon.com, dove i suoi libri sono tra i più venduti. «Amazon dovrà decidere se trasformarlo in un serial che verrà distribuito sul web in America e Gran Bretagna. Nel resto del mondo, Italia inclusa, potrebbe debuttare già a fine anno sul piccolo schermo. Sarà il pubblico a decidere la sua sorte e finora la reazione è stata straordinaria, con oltre 4 mila recensioni stellari in una sola settimana».
Pensa che il web sia il futuro della televisione?
«Ne sono convinto. Come moltissimi americani, anch’io guardo la tv online perché è conveniente e flessibile. I miei libri hanno già ispirato due film hollywoodiani, Debito di sangue con Clint Eastwood e The Lincoln Lawyer con Matthew McConaughey, ma la web tv è il formato migliore per un personaggio complesso che continua a crescere».
Quando è nata la sua passione per la narrativa poliziesca?
«A 16 anni fui testimone di un crimine che mi portò a contatto con l’affascinante mondo dei commissariati di polizia. Un’esperienza che impressionò molto la mia giovane psiche, spingendomi ad identificarmi col poliziotto buono. Oltre a Chandler, le mie muse sono Ross Macdonald, Joseph Wambaugh e i miei genitori».
Sono stati loro a incoraggiarla?
«Papà era un artista mancato. Dopo aver frequentato la prestigiosa University of the Arts di Filadelfia sognava di diventare pittore ma per sfamare la famiglia fu costretto a mettere i sogni nel cassetto. Quando seppe che volevo fare lo scrittore mi ha appoggiato incondizionatamente ma è morto prima che il mio primo libro fosse pubblicato. Oggi sarebbe orgoglioso e sorpreso del mio successo quanto lo sono io che ho iniziato a scrivere per passione, non certo per arricchirmi. Il destino è stato benevolo con me: alcuni dei miei 5 fratelli hanno molto più talento di me ma il mondo non li conosce».
Che ruolo ha svolto sua madre?
«Era un’avida lettrice di gialli che mi ha trasmesso l’amore per la letteratura hard boiled e fino alla morte fu sempre la prima a leggere i miei libri. Oggi il compito spetta a mia moglie Linda, pilastro della famiglia. Il prossimo aprile festeggeremo 30 anni di matrimonio».
Come mai nessuno dei suoi romanzi è ambientato in Florida, dove lei vive da quando aveva 12 anni?
«Pur essendo patria di grandissimi giallisti, il Sunshine State non m’ispira. M’innamorai di Los Angeles senza mai averci messo piede prima attraverso Chandler, e poi grazie ai tanti libri e film ambientati nella Città degli Angeli negli anni Settanta e Ottanta, come Il lungo addio di Robert Altman. Ancora oggi sogno di risvegliarmi nei panni di Marlowe».
È Marlowe che l’ha spinta a trasferirsi a Los Angeles?
«Nel 1986 fui nominato per il Pulitzer insieme ad altri due giornalisti del “Fort Lauderdale News” per un reportage sull’incidente del volo Delta 191. La notizia attirò l’attenzione del “Los Angeles Times” che, l’anno dopo, mi assunse come reporter di nera e per il quale seguii la drammatica vicenda di Rodney King».
Si è occupato anche del caso O.J. Simpson?
«Accadde un mese dopo il mio addio ufficiale al “Times ”. Dalla mia casa in cima alla collina godevo di un panorama fantastico della città e ricordo ancora come, alla vista degli elicotteri che inseguivano la Bronco di O.J., mi sentii felice di non essere nei panni del mio successore. Tornai a dedicarmi a L’ombra del coyote , il preferito tra i miei libri perché il primo scritto come autore full time».
La sua attività di giornalista ha influenzato quella di scrittore?
«Il giornalismo mi ha insegnato tutto: l’attenzione per i dialoghi, l’etica del lavoro che ti vieta di avere insulsi blocchi dello scrivano. Anche oggi scrivo tutti i giorni e non mi sognerei mai di mettermi a fumare la pipa guardando fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione. Il mio stile è molto diverso dagli autori col phD in scrittura creativa. Penso alla prosa straordinaria di Dennis Lehane che scrive romanzi polizieschi ma in maniera ben più forbita e letteraria della mia. Siamo le due facce della stessa medaglia».
In un articolo per il «Corriere della Sera», Lehane ha suggerito che lei è il nipote di Chandler, il quale a sua volta è figlio di Dashiell Hammett.
«Non merito un complimento simile. La crime fiction sta vivendo l’età dell’oro e i talenti si sprecano. Penso a George Pelecanos, a Lehane e agli sceneggiatori dietro show televisivi come Breaking Bad , The Wire , I Sopranos e True Detective . Ci sono scrittori bravissimi ma poco conosciuti come Michael Lister e P. G. Sturges. Per non parlare delle donne: Gillian Flynn, Patricia Cornwell, Lisa Scottoline, Janet Evanovich, Alafair Burke».
Conosce la letteratura noir del resto del mondo?
«Quella made in Italy è straordinaria. Da Carlo Lucarelli, autore di Almost Blue , a Giorgio Faletti con Appunti di un venditore di donne , ad Andrea Camilleri e il suo Ladro di merendine . Se i gialli italiani fossero più tradotti, sfonderebbero in America. Proprio com’è successo agli scandinavi: dopo il trionfo di Stieg Larsson adesso è il momento di Jo Nesbø. Gli europei mi attraggono perché non interferiscono col mio processo creativo. La giornata di Montalbano è diametralmente opposta a quella del mio Bosch e quindi non può influenzarmi. Mi chiedo cosa pensano gli italiani di scrittori anglosassoni che scrivono del Bel Paese come Donna Leon e Michael Dibdin».
Anche Dan Brown ha scritto di Firenze in «Inferno».
«Non l’ho letto e non lo farò. Le opere di Brown sono come puzzle e i puzzle non mi interessano. Preferisco libri come Act of War di Jack Cheevers, quello su Jfk di Vincent Bugliosi e Lost in Shangri-La di Mitchell Zuckoff. Amo leggere Stephen King che frequento quando sverna in Florida. Tra noi non esiste rivalità perché i nostri lettori sono talmente tanti e insaziabili che c’è spazio per tutti».
Che cosa pensa di James Patterson e della sua abitudine di avvalersi di collaboratori per i suoi libri?
«È facile denigrare e attaccare Patterson ma nessuno è riuscito ad eguagliare il suo nobile traguardo: avvicinare ai libri milioni di persone che altrimenti non leggerebbero».
Chi preferisce tra John Grisham e Scott Turow?
«Quest’ultimo, perché ama i dettagli quanto me. In realtà Turow e Grisham sono entrambi miei maestri, da loro ho imparato moltissimo ben prima di iniziare questo mestiere. Da piccolo ho letto anche Agatha Christie e Dashiell Hammett. Will Graham, protagonista de Il delitto della terza lun a di Thomas Harris, ha avuto un effetto ipnotico su di me».
Perché i romanzi polizieschi sono spesso ambientati nelle grandi città?
«Sono il luogo dove confluiscono disuguaglianze sociali, corruzione, crimine e dove sogni infranti e realizzati coesistono: una miscela potenzialmente esplosiva. Tutto ciò è ben visibile a Los Angeles, città collinosa dove si sale e si scende e dove dal paradiso puoi ritrovarti tra le fiamme dell’inferno. Proprio come in un quadro di Bosch. All’università passammo settimane a discutere i suoi quadri e quando potei permettermelo andai a vederli al Museo del Prado di Madrid e al Palazzo Ducale di Venezia. Chi conosce Bosch comprende l’omonimia col mio detective».
Se Los Angeles è la sua musa perché preferisce guardarla da lontano?
«Ho scelto Tampa affinché mia figlia crescesse vicino ai suoi quattro nonni e perché posso chiudermi in casa a scrivere, lontano dalle distrazioni. Quando lavoro, copro le finestre con tende nere, nascondo gli orologi e bevo 15 litri di the freddo alla settimana. Ai party ci vanno i romanzieri di fiction, non quelli di noir come me. Io poi sono un tipo poco festaiolo».
Le donne apprezzano il genere poliziesco quanto gli uomini?
«Molto di più. Sugli aerei gli uomini leggono manuali su come fare carriera, le donne romanzi psicologici, molti dei quali polizieschi. Le statistiche confermano ciò che vedo viaggiando molto».
Eppure la critica spesso snobba il vostro genere.
«Anche se i miei libri continuano ad essere recensiti dal “ New York Times” e dal “Washington Post” ritengo legittimo che un critico ignori scrittori di successo per dedicarsi a ignoti che hanno bisogno del loro aiuto per farsi conoscere. E comunque il pubblico, l’unico che conti davvero, sa bene che la detective fiction è l’unica che rispecchia la realtà contemporanea, offrendo uno spaccato dell’America vera di oggi».
@afarkasny