Sergio Romano, Corriere della Sera 23/2/2014, 23 febbraio 2014
L’EUROPA PARLI CON MOSCA
Per diventare Cancelliere o ministro degli Esteri non è necessario superare un esame di storia. Ma se Angela Merkel e altri leader dell’Unione Europea avessero maggiore familiarità con la storia del loro continente nel Ventesimo secolo, saprebbero quanto sia stato sempre difficile tracciare i confini dell’Ucraina con una ragionevole precisione.
Esiste una Ucraina occidentale che fu, a seconda delle circostanze, polacca, austriaca o addirittura, anche se per brevi periodi, tedesca. Esiste Kiev, centro di una storia culturale e spirituale indissolubilmente legata a quella della Russia. Esistono i territori della minoranza rutena nella parte meridionale del Paese. Esiste l’Ucraina centro-orientale dove si parla russo e le industrie hanno un rapporto organico con l’economia del loro grande vicino. Ed esiste la Crimea che è russa, dopo essere stata tatara, ma appartiene all’Ucraina soltanto grazie a un atto di donazione firmato da Kruscev nel 1954, quando lo scambio di territori da una Repubblica all’altra avveniva nell’ambito di uno stesso Stato, governato con un pugno di ferro da un partito unico. Se avessero una migliore conoscenza del loro passato, i tedeschi ricorderebbero che il nazionalismo ucraino è confinato ai territori occidentali, che fiorisce generalmente all’ombra di una potenza straniera e che quella potenza fu, in almeno due occasioni, la Germania. Accadde nel 1918 quando i tedeschi, dopo avere sconfitto la Russia, regalarono all’Ucraina centro-occidentale una sorta d’indipendenza. Accadde nel 1941, quando alla Wehrmacht, mentre attraversava i territori ucraini, furono tributate accoglienze entusiastiche. Il Terzo Reich poté contare da allora su formazioni volontarie reclutate sul posto e su un nutrito gruppo di SS indigene. Se avessero migliore memoria di quegli anni i tedeschi avrebbero già constatato che fra quei nuclei indipendentisti e alcuni dei movimenti di piazza Indipendenza corre una inquietante somiglianza.
Esiste certamente, soprattutto nell’Ucraina occidentale, un legittimo sentimento nazionale, ma il sostegno morale, generosamente declamato da alcuni Paesi della Ue, ha avuto tre effetti che Bruxelles evidentemente non aveva previsto. Ha suscitato in una parte della società ucraina l’illusoria speranza che il Trattato di associazione sarebbe stato un preambolo all’adesione. È stato usato dai gruppi radicali a cui premeva soprattutto creare le condizioni per uno scontro frontale con il presidente Yanukovich e il partito filo-russo delle regioni. Ha risvegliato a Mosca il sospetto che le frontiere della Nato e, più generalmente, quelle dell’area d’influenza occidentale, si sarebbero ulteriormente spostate verso oriente.
È singolare che nessuno a Bruxelles, negli scorsi giorni, abbia ricordato che cosa accadde nel 2008 quando Mikhail Saakashvili, presidente della Georgia, credette di poter contare sulla protezione degli Stati Uniti e cercò di riappropriarsi dell’Ossezia con le armi. Era davvero difficile immaginare che gli interventi dell’Unione Europea, assortiti dalla minaccia di sanzioni contro il regime di Viktor Yanukovich, sarebbero stati letti come una variante dell’affare georgiano?
L’Unione Europea non può disinteressarsi dell’Ucraina e delle sue sorti e ha qualche buona ragione per deplorare i tratti autoritari della Russia di Putin. Ma non può negare l’esistenza di legittimi interessi russi e non può cercare la soluzione della crisi ucraina senza ricercare un accordo con Mosca.
Sappiamo che l’Italia, in questo momento, ha altri pensieri per la testa e che il cambio del titolare alla Farnesina non giova alla rapidità dei nostri riflessi e alla efficacia dei nostri interventi. Ma anche noi abbiamo interessi in quella parte dell’Europa e abbiamo rapporti con la Russia che non hanno mai subito, nonostante il cambio dei governi e dei ministri degli Esteri, sostanziali varianti. Credo che questo ci dia il diritto di dire ai nostri partner che una intesa con la Russia avrebbe anzitutto l’effetto di non offrire pretesti alle provocazioni dei gruppi radicali e che sarebbe, in ultima analisi, nell’interesse di tutti.