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 2014  febbraio 23 Domenica calendario

ORNELLA VANONI – [HO OTTANT’ANNI, LO SO, NON SI VEDE MA CE LI HO”]


Ecco, spiega, e afferra la sedia. La alza con due dita e la sedia va su — legittimo a quel punto un attimo di inquietudine. E dice: «è una seggiola chiavarina, ovvero di Chiavari, specialità del luogo, fatta come una volta, leggera e robustissima, artigiani fantastici, un mondo che era fatto come si deve e c’erano questi artigiani».
Ornella Vanoni a quel punto mette giù la sedia, ride e si sospira tutti, perché l’oggetto di metafora è lì a portata di mano, nella nuova casa milanese. Gran tempi quelli degli artigiani, nelle sedie e altrove: ma pur di non concedere neanche un’unghia al nostalgismo e al ricordo che si appallottola nel ricordo, lei, Ornella, prende e va. In tour, da giovedì: a Gallarate, minimo rodaggio in provincia, poi il 3 marzo Roma, al Sistina. Alla vigilia — diciamolo — degli ottanta («Non si vede ma li ho, che devo fare?»). Con un’ansia pazzesca dovuta alla percezione della stanchezza, quella — le si fa notare — che magari anche a cinquanta avverti già pesante e lei ti dice: mavalà (aggiunta: «Ma ha un’idea di cosa combinavo io a cinquant’anni?»).
Il tour ha un titolo, Un filo di trucco e un filo di tacco, ed è una sentenza celebre ripetuta a Ornella dalla sua mamma, ai tempi, all’infinito. Il punto è che non è, come potrebbe sembrare, un invito alla sobrietà e al non esagerare, bensì il consiglio deciso sull’essere sempre a posto e presentabili, in ogni occasione. Bei tempi, certo, quelli là, ma vuoi mettere andare in tour ora? Ascoltarla per credere, per esempio il suo recente Meticci, raffinato pastiche di cose allegre e profonde: la voce. Quella voce che ti butta freschezza addosso, da non credere. «Anni fa mi trovano un “cosetto” in zona corde vocali, vado a Lione dal migliore specialista, mi opera: alla fine mi dice, “signora, mai viste corde vocali così”». Voce da trentenne da spendere ancora una volta in giro per l’Italia, per un’impresa definita in origine “L’ultimo Tour”. Be’. «Come tour è sicuramente l’ultimo, ma di smettere di cantare non ho la minima intenzione. L’altro giorno ci scherzavo su con De Gregori al telefono. Rido molto con lui. Ah ecco, lo scriva: sono anni che mi ha promesso una canzone, Francé, qua ti devi sbrigare però». E ride da trentenne, mentre arriva un ricordo via l’altro. Mi scusi, hanno appena fatto tre sabati sera su Raiuno con Massimo Ranieri, non sarebbe ora anche per lei una consacrazione come questa? «Bello, ma io non sono abbastanza nazional-popolare». Veramente a leggere le cifre di vendita dei dischi di una volta… «Tutti uomini che compravano. Piacevo da pazzi agli uomini — lo sa, vero? — e le donne mi odiavano. Solo quando arrivò L’Appuntamento ci fu una specie di plebiscito, ma fino a quel momento lo slogan delle donne al compagno era: non guardare la Vanoni, sai, e dire che...». E dire che? «E dire che io cantavo storie e immagini di donne che soffrivano e non riuscivano a staccarsi, controverse, complesse, ora non dico un modello per tutte, però…». Però. «Però che ci potevo fare, avevo tutto quello che piaceva agli uomini, ma proprio tutto sa? E poi arrivò la svolta, la mia fisicità naturale messa in scena con il più grande di tutti nel teatro, un ambiente pazzesco, ho visto e partecipato a prove di spettacoli da non credere, succedeva di tutto. E senza passare da nessuna gavetta. Ero invidiata, ovvio». Nonché inseguita dal mondo intero, con risvolti notevoli: poche settimane fa è andata ospite da Maurizio Costanzo nel suo programma notturno di Raiuno, e mentre il baffo fremeva per farle dire cose indicibili Ornella gli ha messo lì: «Be’, del resto ci hai provato anche tu, no? Ricordi quella cena al Palace di Milano...». Il suo Dna non glielo consente, ma si potrebbe azzardare di aver visto Costanzo arrossire, nell’occasione.
Prorompente e dirompente, al punto che restano anche oggi questioni in sospeso su quel passato: «La vera domanda è con che coraggio ho lasciato Strehler e il Piccolo quando nell’ascesa di carriera e progetti il Maestro stava preparando cose enormi, che poi fece con Milva». Già. E significa che la questione resta irrisolta, così come, alla fine, la complessità della questione Strehler che oggi si può risolvere con una battuta. «Abbiamo già detto quanto piacevo agli uomini? Lui dopo il primo incontro mi ha detto “hai un gran bel culo”. Poi ha anche detto: “e sei molto intelligente”. Non ci ho mai creduto, ma almeno me l’ha detto».
La fisicità, appunto, e ripensi a quelle due dita che sollevano la sedia, le dita sono quelle delle mani, grandi e senza fine, la fisicità naturale anche quella: «Gino Paoli l’aveva capito, mi diceva che in queste mani ci poteva stare tutto il mondo, e scriveva canzoni sulle mie mani». Bei tempi e quasi sempre indicibili, ma un giorno Ornella si scopre attratta da Dio, quello dei protestanti e in un’intervista dice: «Rinnego il cinquanta per cento di quello ho fatto nella mia vita». Conferma? «L’ho detto così, ma sicuramente era un bel pezzo di vita, una parte molto precisa. Ci ripenso come se quella vita l’avesse vissuta un’altra persona». Poi la questione con Dio, quello con cui a un certo punto bisogna provare ché non si sa mai, si è un po’ ingarbugliata: «Ma dipende dalle persone, prima un prete che ti convince e poi non ti convince più, adesso vado a Sant’Eustorgio, c’è un bel gruppo di amici, un prete polacco alto due metri». Proviamo anche con lui, non si sa mai. «Fermo restando che un Papa che dice “chi sono io per giudicare?” ecco, come si fa a non rimanere affascinate?».
Più futili, su. Ci sarebbe la questione delle canzoni e se non lo sa lei non lo sa nessuno: non è che sono già state scritte tutte, e da tempo? «Ma sì, ovvio che a noi piace pensarlo, ma quello che non c’è più è un modo di lavorare e di pensare lo spettacolo che poteva esserci solo allora: usciti dalla guerra, l’entusiasmo, tutto da scoprire, tutto da raccogliere. I talent show oggi li guardo, certo, vedo in giro gente che mi piace, Malika, Arisa. La povera Amy Winehouse la sentivi e mica pensavi che la canzone non c’è più, al massimo che prima c’è stata Ella Fitzgerald e poi è arrivata Amy, ma il mondo attorno è tutto meno intenso, meno voglioso di cose, più da produzione che da creazione». Un’epoca in cui dire cantanti donne italiane, be’, non era mica male: «Ero diversa dalle altre, da una Zanicchi per esempio molto più aperta ed estroversa: io ero timida e scontrosa e ogni volta che c’era il concerto alla sera mi mettevo a pensare che magari nel pomeriggio veniva giù un pezzo di teatro e il concerto non si poteva fare». Mina, ecco, rivali? Mah. «Mina ha portato la gioia nella musica, io un po’ di intellettualismo, ci siamo frequentate, bei ristoranti e pranzi, poi succedeva che entrava in scena il mazzo di carte: io alla quarta carta mi addormentavo, mai piaciuto e me ne andavo a leggere un libro, ma mica perché ero superiore, mi andava così e a lei andava in un altro modo».
Si andrebbe avanti per ore e anche solo con storie minime, visto che quelle grandi attraversate da passioni, depressioni, dilemmi e, come da canzone, Dettagli, sono state raccontate in lungo e in largo: ma il piacere è impagabile quando si rimane a discutere per un quarto d’ora su chicche minime e clamorose di carriera, quella Rossetto e cioccolato— quando aveva ancora un senso erotizzare le canzoni e nemmeno troppo tempo fa — che Sorrentino prese nelle Conseguenze dell’amore e la mise nell’autoradio del camorrista e il camorrista si commuoveva alle lacrime. Belle cose e sensazioni.
La storia infinita e pazzesca è (anche) quella che attraversa i decenni con collaborazioni e sensazioni musicali irripetibili, negandosi pochissimo, la Mala, il Brasile, Vinicius, il jazz da lasciare come campo aperto per cantare ancora in futuro — un disco recente live al Blue Note di Milano, ma vengono i lucciconi a sentirla raccontare di una lontana cosa in America, anni Settanta, una pazzia incosciente e allegra appresso a Sergio Bardotti (ecco, a proposito di quelli che non ci sono più) che la portò là per un disco con tipi come Herbie Hancock e George Benson: «Poveri, eravamo pazzi, una notte gli abbiamo distrutto lo studio. Ogni tanto passava di lì Gil Evans — (scusi, ha detto Gil Evans?) — povero anche lui, ormai ci vedeva poco, si sedeva, ascoltava e diceva “The right notes in the wrong place” ». Il posto sbagliato era lui, Gil, per l’impossibilità ormai di buttarsi dentro a quel gioco.
E proprio per ripristinare invece note giuste nel posto giusto, si va appunto in tour. Recital di canzoni e parole, interlocutrice una luna là in alto in scena («La luna basta a se stessa ed è bella e basta»), freschezza di voce e che altro serve davvero?