Antonio Gnoli, la Repubblica 23/2/2014, 23 febbraio 2014
GIACOMO RIZZOLARI – [DA BAMBINO SONO SCAMPATO ALLE PURGHE STALINIANE CON I MIEI STUDI HO CAPITO COME FUNZIONA IL CERVELLO]
Ripensando alla turbinosa ascesa della repressione staliniana non era facile immaginare di ritrovarvi i lembi di una piccola grande storia italiana. Ma quando la polizia segreta e la fame incombente bussarono alla porta della famiglia Rizzolatti si capì immediatamente che un’epoca era finita e che il futuro appariva incerto e spaurito come i volti degli abitanti di Kiev. Giacomo Rizzolatti, che grazie alla sua scoperta dei “neuroni specchio” ha sfiorato il Nobel, conserva la memoria di quegli anni per quel tanto che il padre gli raccontò. Lo scienziato vive e insegna a Parma. È un signore curioso e affabile. E se posso aggiungere una nota di colore egli veste con la discreta trasandatezza che un uomo di talento ha quando il disinteresse per sé è pari all’interesse per la propria ricerca. «Giunti a una certa età siamo ciò che abbiamo imparato ad essere: radici, educazione, cromosomi. Contesti naturali e sociali. Anche il vestire non fa eccezione».
In fondo l’abito e l’abitare hanno la stessa radice.
«Abitiamo i nostri vestiti come le nostre case».
Lei vive qui?
«Sì, a Parma in una zona centrale».
Dove è nato?
«In Ucraina, allora Unione Sovietica. Il mio papà fece l’università a Kiev, città allora molto diversa da quella martoriata di oggi. Parlo degli anni Trenta. Si iscrisse a Medicina che non ero ancora nato. La situazione si stava facendo terribile. Si percepiva un senso di furore rivoluzionario e di paura ancestrale».
Paura per cosa?
«Perdere tutto, anche la vita. Cominciava a dilagare il sistema della delazione e della denuncia. Stalin aveva deciso di collettivizzare l’economia. E i contadini, quelli con la terra, furono i primi a opporsi. Ammazzarono le proprie bestie, incendiarono le proprie case, rinunciarono a lavorare la terra pur di non cedere all’espropriazione forzata. In quelle circostanze gli studenti erano spediti a lavorare nei campi. Mio padre, soprattutto in estate, raccoglieva nei primi kolchoz le patate».
Fu una forma di collaborazione?
«Direi piuttosto un obbligo. Mi raccontò che durante una lezione all’università, una ragazza lo denunciò: lui, disse la studentessa indicando mio padre, è il figlio del costruttore Rizzolatti, un nemico del popolo. Il professore reagì con calma: è vero, replicò. Ma lo studente Rizzolatti è stato rieducato come infermiere nelle miniere del Don».
Con che spirito suo padre le raccontò tutto questo?
«Era consapevole che la situazione stava sfuggendo di mano. Ma non ne ebbe mai un ricordo cupo. Quando una volta gli chiesi perché, sapendo cosa era accaduto in Unione Sovietica, aveva deciso di partecipare alla guerra partigiana in Italia, mi rispose: perché lì come qui pensavamo comunque a un mondo migliore».
Come arrivò la sua famiglia a Kiev?
«Alla fine dell’800 il mio bisnonno emigrò verso l’impero russo. Era friulano, senza lavoro perché ce ne era poco. Arrivò a Kiev con alle spalle una scuola di mosaico. Fu assunto come operaio specializzato. Col tempo si mise in proprio nella lavorazione del marmo, che importava da Carrara. Divenne un uomo discretamente ricco. E tutto andò bene fino alla rivoluzione del 1917».
Cosa accadde?
«Ci tolsero la fabbrica. Ma non la casa, quella che il nonno aveva fatto costruire. La confiscarono solo parzialmente consentendo alla nostra famiglia di viverci. Dopotutto eravamo stranieri e quindi ancora agevolati».
Quando la situazione precipitò?
«Durante la Guerra di Spagna. Stalin decise che in pochissimo tempo gli stranieri dovevano essere rispediti ai loro paesi. Nel 1937 arrivò lo “sfratto”. Toccò prima a mio zio, poi a mio padre e mia madre, infine ai nonni che erano ancora vivi. In tre mesi dovemmo lasciare Kiev. Ero appena nato. L’ambasciata ci aiutò a portare via qualche gioiello, sembravamo usciti da un romanzo di Bulgakov, che tra l’altro era nato a Kiev e aveva fatto il medico».
Non è che l’Italia fosse proprio il sogno.
«Anzi. Per una legge del fascismo i miei dovettero risiedere nel luogo da cui i nonni erano partiti: Clauzetto, un paesino non lontano da Pordenone. Ora, lei immagini passare da un posto come Kiev che faceva un milione di abitanti, con una vita sociale internazionale, a un luogo che contava sì e no 500 anime. La mamma che era una donna spiritosa, disse: ma non avete l’impressione di stare nel Caucaso?».
E qui inizia la sua storia.
«Devo dire che la nostra storia familiare strideva con il provincialismo italiano di quegli anni. Avevo buone letture alle spalle: romanzi francesi e russi, come si addiceva a un’educazione un po’ mitteleuropea ».
Conosceva il russo?
«Da ragazzo lo leggevo. Oggi avrei difficoltà con il cirillico. Ma allora, parlo degli anni Cinquanta, mi fu utile al liceo classico che frequentai a Udine. Poi l’università a Padova e la decisione di occuparmi di neurologia».
Perché neurologia?
«La scelta si legava alla professione dei miei. Entrambi medici. E poi ero affascinato da quella scatola e soprattutto dal suo contenuto: il cervello. Gli insegnanti mi sembravano tutti bravi. Fu un assistente di fisiologia a mettermi in guardia: ma cosa fai? Qui sono quasi tutti dei “mona”. Se vuoi occuparti di “cervello” vai a Pisa dal professor Giuseppe Moruzzi».
Cosa aveva di speciale?
«Fu un genio della ricerca. Insegnò a Bruxelles, Cambridge e a Chicago invitato dal grande Horace Magoun e infine a Pisa. Capitava, a volte, che Rita Levi Montalcini lo interpellasse su alcune ricerche scientifiche. A lui si deve l’importante scoperta della formazione reticolare che lo rese particolarmente famoso in Unione Sovietica».
Perché lì?
«Le sue ricerche si incrociavano con quelle di Pavlov. In particolare sul concetto di “reazione di orientamento”».
Spieghi.
«Prima di Moruzzi si pensava che il cervello si attivasse grazie alle sue tante vie, acustica, visiva, motoria, e che queste modalità andassero analizzate separatamente. Pavlov si accorse che battendo le mani si produce un certo suono di fronte al quale una persona si gira. La domanda che si fece Moruzzi fu: perché quella persona oltre all’udito coinvolge la parte motoria?».
E quale fu la risposta?
«Moruzzi formulò l’ipotesi che le modalità sensoriali fossero integrate, o tenute assieme, da una sostanza reticolare che poi inviava l’impulso al cervello».
Con Moruzzi quanto tempo ha lavorato?
«Per tre anni. È stato un uomo fondamentale con una visione umanistica straordinaria. Ricordo ancora che una delle prime cose che mi chiese fu se conoscevo la Recherche di Proust. Balbettai che sì qualcosa avevo letto. Mi guardò e rispose: naturalmente in francese, se no è come non averla letta».
È stato importante Moruzzi per le sue successive scoperte?
«Lo è stato come atteggiamento critico, come manifestazione di creatività e indipendenza di giudizio. Di solito si pensa che solo gli artisti siano creativi e che gli scienziati facciano il lavoro rigido. Non è così».
In effetti molti artisti si sono entusiasmati per la sua scoperta dei “neuroni specchio”.
«È vero. Jan Fabre, che ho incontrato diverse volte, ci ha visto dentro un mondo che era anche il suo».
Parliamo di questo mondo.
«Inizialmente mi occupavo del sistema visivo. Per caso mi accorsi che c’era un’area del cervello che confinava con il sistema motorio e lì si trovavano delle risposte visive che apparentemente non dovevano esserci».
Mi faccia capire: un cervello ha miliardi di neuroni. Lei e il suo team ne intercettate alcuni un po’ particolari. Ma non è come trovare il biglietto vincente di una lotteria?
«Sembra ma non è così. Anche perché non si parte da zero ma con delle ipotesi. Il punto è che quando ti imbatti in ciò che sembra un’anomalia, prima di escluderla, devi provare a razionalizzarla».
E Come avete fatto?
«Seguendo anche un approccio etologico. Cominciammo i primi esperimenti utilizzando dei gatti».
Dei gatti?
«Sì. Quando lo comunicai a un professore americano rispose: ma io non leggo letteratura sui gatti. Come non legge? dissi io. Voglio dire, precisò, che la sola rilevanza cognitiva la si ha con le scimmie o con l’uomo ».
So che sceglieste un macaco.
«Sì e l’idea fu di non condizionare la scimmia ma lasciarla libera. Quindi non trattarla come un essere che produce movimento, ma alla stregua di un’entità viva, le cui azioni sono esercitate in vista di uno scopo ».
Quindi un essere intelligente.
«E in qualche modo socievole. I test che conducemmo ci fecero scoprire una cosa apparentemente strana: registrammo che un neurone motorio rispondeva agli stimoli visivi».
Perchè strana?
«Perché di solito si pensava che l’atto motorio fosse un semplice atto esecutivo. In realtà la questione apparve più sofisticata. Ci accorgemmo che la scimmia non compiva solo dei movimenti ma delle vere e proprie azioni. E questo era possibile perché, in qualche modo, era saltata la rigida e artificiale separazione tra area percettiva, cognitiva e motoria ».
Per dirla con una battuta: il movimento non è cieco.
«Più esattamente: il cervello che agisce è anche il cervello che comprende».
E questa comprensione avviene prima che la società dia le regole e si formi il linguaggio?
«Diciamo che è una precomprensione che viene prima della costruzione dei concetti, ma è altrettanto importante per le capacità cognitive ».
Questa fase primaria è quella che chiamate dei “neuroni specchio”?
«Ci sono dei fenomeni alla nascita che abbiamo appunto chiamato “neuroni specchio”».
“Specchio” perchè?
«Il meccanismo ci permette di sapere cosa fanno gli altri senza dover ricorrere alla fase linguistica, ma basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie».
Insomma: io so che cosa sta facendo una persona perché so farlo anche io, sento le stesse cose che sente lui?
«In un certo senso è così. I neuroni specchio creano un campo comune di esperienza che coinvolge tanto l’aspetto individuale quanto quello sociale».
Un Io e un Noi con una base comune?
«La nostra scoperta, alla quale ha contribuito un gruppo di ricercatori straordinari, rivela che c’è un meccanismo naturale che in qualche modo ci rende sociali, ci porta a considerare l’altro come noi stessi. È chiaro che questo meccanismo è poi influenzato dalla società. Questo per rispondere a eventuali obiezioni sul presunto eccesso di biologismo ».
Gli psicologi non hanno accolto molto bene la vostra scoperta.
«Lo capisco, va a toccare tutto il piano dell’emotività che loro spiegano in maniera diversa. I neurologi invece l’hanno presa benissimo, ritenendola fondata su basi solide. E così gli artisti e perfino i filosofi».
Anche il pubblico si è appassionato. Come ha vissuto il successo?
«All’inizio con molto stupore. Sapevo che la scoperta era interessante, soprattutto per le ricadute. Ma non mi aspettavo una reazione così mediaticamente forte».
Le piace essere una star della scienza?
«Cerco di non montarmi la testa».
Come definirebbe la scienza?
«Nell’epoca moderna è il metodo sperimentale: trovare risultati che siano ripetibili. Insomma, il metodo galileiano».
Rimane buono nonostante la svolta quantistica?
«Mi sento ancora newtoniano. In fondo continuiamo a vivere nel mondo newtoniano».
Newton non disprezzava le incursioni nella magia e nella religione.
«Anche Galilei si dedicava all’astrologia. Ma sono aspetti folcloristici ».
Per uno scienziato oggi sarebbe folcloristico occuparsi di religione?
«Non sarei io a impedirglielo. Mi dà fastidio chi è violentemente contro qualcosa. La varietà di pensiero nelle persone, oltre alla confusione, crea ricchezza. Però una cosa è la fede altra è la scienza».
Nel senso?
«Sono due mondi avulsi l’uno all’altro. Il metodo sperimentale mi dice che una cosa deve essere assolutamente ripetibile perché sia vera. I miracoli non sono ripetibili. Se ammettessi i miracoli non farei più scienza. Diamoci un po’ di coerenza».
Alcuni grandi scienziati non hanno rinunciato a credere.
«È vero. Il grande scienziato John Eccles era un esigentissimo cattolico ».
Cos’è la libertà per un uomo che si concede una contraddizione così vistosa?
«Non ho mai pensato alla fede come a un oggetto. E capisco che ad alcuni faccia piacere sapere che esiste un mondo dell’aldilà e che non tutto finisce qui».
E’ solo una consolazione?
«Certamente consola. Ed è chiaro che sul piano delle preferenze è meglio un mondo che preveda l’aldilà a un mondo che non è in grado di contemplarlo. La mia logica dice però che è poco verosimile. Tuttavia, mi danno fastidio coloro che si dichiarano atei e che impongono una loro immagine di assenza di Dio. In fondo è anche questa una prepotenza. Se uno scienziato vuole andare in chiesa ci vada pure. Le leggi della fisica non cadranno per questo».