Umberto Galimberti, D, la Repubblica 22/2/2014, 22 febbraio 2014
PERCHÉ NON SONO SU FACEBOOK
No, non sono su Facebook, non ci sono mai stato e mai ci sarò. Anche se qualcuno si spaccia per me e scrive e risponde come se fossi io. La polizia informatica mi ha detto che non può nulla contro queste intrusioni e, giustamente, ha cose più importanti da controllare. Dopo di che non ho nulla contro i social network, come al solito dipende dall’uso che se ne fa. E magari c’è anche un buon uso, in questa nostra società fatta di solitudini di massa. Anche se recenti studi americani condotti dal Jeffersonian Institute di Washington hanno individuato forme di dipendenza da Facebook e simili da cui è molto difficile liberarsi.
E questo vale soprattutto per i giovani che passano molto tempo a incontrarsi nel mondo virtuale, invece che in quello reale, dicendo cose di scarso interesse per la comunicazione ma di grande interesse per il mercato che, individuati i gusti, bombarda i malcapitati con una pioggia di messaggi pubblicitari per assecondare i loro desideri o i loro sogni.
Passare molte ore a controllare i propri profili e, come lei dice, senza aver nulla di davvero interessante da dire, ma solo per assaporare il gusto di avere tanto contatti che danno la sensazione di sentirsi davvero esistenti e per giunta interessanti, lascia intendere il grado di solitudine in cui siamo precipitati e quanta desuetudine stiamo alimentando a incontrare gli altri senza le maschere di false identità.
Se a questo si aggiunge che, rubando le password delle persone che ci interessano ci mettiamo a controllarne la vita, i sentimenti, gli scambi epistolari che non ci riguardano, costruendo e decostruendo l’immagine che abbiamo dell’altro a patire dalle informazioni che desumiamo, allora il pericolo della paranoia è in agguato. E questo bisogno di controllo totale prende il posto dell’innocenza da cui una relazione dovrebbe prendere le mosse, accettando quella prima condizione di ogni incontro autentico che è quella che l’altro è davvero un altro e non una risposta che si acconci perfettamente alla nostra prefigurazione, perché questo non soddisfa tento il nostro bisogno d’amore, quanto il nostro bisogno di controllo e quindi di potere.
È persuasione comune che la tecnologia ci ha fatto progredire, ma leggendo la sua lettera l’impressione che ne ricavo è che siamo tornati al pettegolezzo di paese, dove tutti sapevano i comportamenti e gli stili di vita di tutti e li commentavano, inquadrando le persone in stereotipi, intorno ai quali si alimentava la conversazione quando non anche la maldicenza. Del resto di pettegolezzi sono infarcite molte trasmissioni televisive pomeridiane, dove la messa in piazza dei propri sentimenti, delle proprie emozioni, dei propri desideri sconfina nella spudoratezza fatta passare per sincerità. “Non ho nulla da nascondere, nulla di cui vergognarmi”, quando la “vergogna” (parola che significa “temo la gogna”, ossia l’esposizione) è già nel fatto che mi privo, mettendola in piazza, della mia interiorità. Uno spogliarello dell’anima che considero più indecente di quello del corpo.