Cynthia Haven, la Repubblica 22/2/2014, 22 febbraio 2014
PHILIP ROTH – [CHE BELLA LA VITA QUANDO NON DEVI PIÙ PASSARLA A SCRIVERE]
«Non esiste vita senza pazienza». Questo concetto viene espresso almeno due volte ne Lo scrittore fantasma. Può svilupparlo un po’?
«L’unico modo in cui posso svilupparlo è ricordando che queste parole non le pronuncio io, ma un personaggio del libro, l’eminente autore di racconti E. I. Lonoff. È una massima che Lonoff ha ricavato da una vita passata ad arrovellarsi sulle frasi, e contribuisce un po’, spero, a caratterizzarlo come scrittore, marito, eremita e mentore. Un personaggio di fantasia prende vita attraverso quello che dice e quello che non dice, è uno dei mezzi che usa il romanziere. Il dialogo è un’espressione dei loro pensieri, delle loro convinzioni, delle loro difese, della loro arguzia, degli scambi di battute ecc., in generale una raffigurazione del loro modo di reagire. Io cerco di raffigurare in Lonoff un’aria verbale di distacco e simultaneamente di impegno, e anche la sua indole pedagogica, in questo caso mentre parla a un giovane protetto. Quello che un personaggio dice è determinato dalla persona con cui parla, dall’effetto che auspica e naturalmente da chi è il personaggio e da cosa vuole nel momento in cui parla. Altrimenti è solo un parapiglia di opinioni. È propaganda. Qualunque segnale trasmettano quelle parole che lei ha citato derivano dalla specificità dell’incontro che le suscita ».
Parlando delle due dozzine di romanzi che ha scritto, lei ha detto: «Ogni libro comincia dalle ceneri». In che modo Lo scrittore fantasma, in particolare, sorge dalle ceneri? Può descriverci come è nato il travaglio con cui è venuto alla luce?
«Come ho cominciato Lo scrittore fantasma quasi quarant’anni fa? Non riesco a ricordarlo. Il grande problema fu decidere il ruolo che doveva avere Anna Frank nella storia».
Dev’essere stata una scelta complicata perché Anna Frank occupa uno spazio inviolabile nella nostra vita psichica collettiva, tanto più nel 1979, quando il libro è stato pubblicato, e tanto più ancora nel 1956, quando si svolge l’azione del libro, poco più di un decennio dopo la fine della guerra. Ha ricevuto critiche per questa raffigurazione? Com’è cambiata la percezione di Anna Frank da quando il libro è stato pubblicato, specialmente alla luce del saggio di Cynthia Ozick del 1997, Who Owns Anne Frank, che si scagliava contro la “kitschificazione” di Anna Frank?
«Avrei potuto fare in modo che Amy Bellette fosse Anna Frank, e non creda che non mi sia impegnato per arrivarci. Il tentativo è stato infruttuoso perché, per citare Cynthia Ozick, io non volevo “possedere” Anna Frank e farmi carico di una responsabilità morale tanto grande, anche se pensavo di inserire la sua storia, che esercitava un così grande potere sulla gente, in particolare sugli ebrei della mia generazione (la sua generazione), nella mia narrativa già dieci-quindici anni prima. Volevo immaginare, se non la ragazzina stessa (e per dire la verità volevo immaginare anche quella, anche se in qualche modo gli altri l’avevano ignorata), la funzione che la ragazzina era arrivata a interpretare nelle menti del suo vasto seguito di lettori ricettivi. Uno di loro è il mio protagonista, il giovane Nathan Zuckerman, che cerca di abituarsi all’idea di non essere nato per essere simpatico, e di essere, per la prima volta in vita sua, chiamato alla battaglia. Uno è il saggio giudice di Newark, Wapter, guardiano della coscienza altrui. Un’altra è la povera e disorientata madre di Zuckerman, che si chiede se suo figlio sia un antisemita deciso a spazzare via tutto ciò che c’è di buono. Ho ritratto qualcuno, come ha detto lei, che aveva santificato Anna Frank, ma in generale ho deciso di lasciare che fosse il meditabondo scrittore in erba (per ragioni impellenti legate alla ferita del rimorso e al balsamo dell’autogiustificazione) a fare lo sforzo immaginativo. Lui si sforza di mettere da parte la compassione e di riabilitarla come qualcosa di diverso da una santa da idolatrare, attraverso un’attenta lettura testuale del suo diario. Per lui, l’incontro con Anna Frank è decisivo, non perché la incontra faccia a faccia, ma perché si impegna nel tentativo simpatetico di immaginarla pienamente, che è uno sforzo drammatico forse ancora più impegnativo. In ogni caso, è così che ho risolto il problema del “possesso”, che inizialmente mi perseguitava. Se sono stato criticato per questo ritratto? Certo, ci sono state delle convulsioni. Ci sono sempre. La gente per bene è sempre pronta a deplorare come opera del demonio un libro che parla di qualcosa che è oggetto di una venerazione idealizzata, che si tratti di un evento storico analizzato con la lente della narrativa, di un movimento politico, di un fenomeno sociale contemporaneo, di un’ideologia che suscita passioni o di una setta, un gruppo, una persona, un clan, una nazione, una Chiesa che spontaneamente si idealizza come un’espressione di amore di sé che non sempre è sorretta dalla realtà. Là dove tutto è requisito per la causa, non c’è spazio per dedicarsi seriamente alla narrativa (o alla storia, o alla scienza)».
Molti la considerano il più importante scrittore ebreo americano. Una volta, però, lei ha detto a un intervistatore che « l’epiteto di “scrittore ebreo americano” per me non ha alcun senso. Se non sono un americano, non sono niente ». Sembra estremamente ebreo ed estremamente americano. Può dirci qualcosa di più sul perché rifiuta questa definizione?
«“Uno scrittore ebreo americano” è una definizione imprecisa e forse anche melensa e per di più non coglie assolutamente il punto. L’ossessione del romanziere, attimo per attimo, riguarda il linguaggio: trovare la parola giusta successiva. Per me, come per Cheever, DeLillo, Erdrich, Oates, Stone, Styron e Updike, la parola giusta successiva è una parola in inglese americano. Sono scorrevole o non lo sono in inglese americano. Azzecco o non azzecco la parola giusta in inglese americano. Anche se scrivessi in ebraico o in yiddish, non sarei uno scrittore ebreo. Sarei uno scrittore ebraico o uno scrittore yiddish. L’America è diventata una repubblica 238 anni fa. La mia famiglia è qui da 120 anni, ossia poco più della metà dell’esistenza dell’America. Arrivarono durante il secondo mandato del presidente Grover Cleveland, appena 17 anni dopo la fine della Ricostruzione. I veterani della Guerra di Secessione avevano cinquant’anni. Era vivo Mark Twain. Era viva Sarah Orne Jewett. Era vivo Henry Adams. Erano tutti nel pieno della loro carriera. Walt Whitman era morto soltanto due anni prima. Babe Ruth non era ancora nato. Se non merito di essere definito uno scrittore americano, almeno lasciatemi la mia illusione».
A un certo punto, ne Il fantasma esce di scena, il “sequel” de Lo scrittore fantasma che ha scritto nel 2007, Amy Bellette dic e a Nathan Zuckerman che pensa che Lonoff le parli dall’aldilà dicendole: «Noi gente che leggiamo e scriviamo, siamo finiti, siamo fantasmi che assistono alla fine di un’epoca letteraria». È proprio così? Lei ha detto una cosa del genere anche in altre occasioni: mi riferisco alla sua conversazione con Tina Brown nel 2009, quando ha affermato che il pubblico dei lettori di romanzi fra una ventina d’anni sarà ridotto alle dimensioni degli appassionati di poesia latina. Non è solo l’avvento del Kindle, giusto? Parlò della questione in termini ancora più generali nel 2001, quando disse all’Observer: «Non riesco a trovare aspetti “incoraggianti” nella cultura americana. Dubito che l’alfabetizzazione estetica abbia un grande futuro da queste parti». C’è un rimedio?
«Non posso che ripetermi. Dubito che l’alfabetizzazione estetica abbia un grande futuro da queste parti. Fra vent’anni i lettori di romanzi letterari saranno numerosi quanto i lettori di poesia latina; intendo i lettori di poesia latina oggi, non i lettori di poesia latina durante il Rinascimento ».
Lei non parteciperà all’evento Another Look del 25 febbraio su Lo scrittore fantasma, ed è un peccato perché con questo evento l’università di Stanford mette in campo uno sforzo per discutere di grandi opere brevi di narrativa con una comunità più ampia, riunendo scrittori e professori universitari. I gruppi di discussione letteraria proliferano in tutto il Paese. Secondo lei rappresentano un modo per estendere e rafforzare l’interesse per il romanzo? Oppure ci stiamo illudendo?
« Non ho mai partecipato a uno di questi incontri. Non so niente di questi gruppi di discussione. Basandomi sui miei tanti anni come insegnante universitario di letteratura so che serve tutto il rigore possibile, per un intero semestre, per riuscire a condurre gli studenti, anche quelli più bravi, a leggere con accuratez-z a un’o pera narrativa, con tutta la loro intelligenza, senza le consuete letture morali, interpretazioni ingegnose, speculazioni biografiche e anche per tenersi alla larga dall’orrendo spettro della generalizzazione appiattente. Questi gruppi di discussione letteraria possiedono questo rigore?».
Nel 2009 lei ha detto a Tina Brown che «non mi dispiacerebbe scrivere un libro lungo, che mi occupi per il resto della mia vita». Nel 2012, però, ha dichiarato senza mezzi termini di aver chiuso con la narrativa. Noi non riusciamo a credere che lei abbia smesso del tutto di scrivere. Pensa davvero che il suo talento la lascerà libero?
« Invece farebbe bene a crederci, perché dal 2009 non ho più scritto una parola di narrativa. Non ho alcun desiderio di scrivere narrativa. Ho fatto quello che ho fatto e ora è finita. Nella vita non c’è soltanto scrivere e pubblicare narrativa. C’è un’altra via completamente diversa, per quanto sia stupefatto di scoprirlo a così tarda età».
In ognuno dei suoi libri lei esplora i suoi interrogativi sulla vita, il sesso, la vecchiaia, la scrittura, la morte. Quali sono gli argomenti che la tengono occupata in questo momento?
«In questo momento sto studiando la storia americana del XIX secolo. Gli argomenti che mi tengono occupato in questo momento hanno a che fare con gli scontri del Bleeding Kansas, il giudice Taney e Dred Scott, la Confederazione, il 13°, 14° e 15° emendamento, i presidenti Johnson e Grant e la Ricostruzione, il Ku Klux Klan, il Freedman’s Bureau, l’ascesa e la caduta dei Repubblicani come forza morale e la resurrezione dei Democratici, la sovracapitalizzazione delle ferrovie e le truffe dei terreni, le conseguenze della Depressione del 1873 e del 1893, la cacciata finale degli indiani, l’espansionismo americano, la speculazione fondiaria, il razzismo bianco anglosassone, l’Armour and Swift, la rivolta di piazza Haymarket e la costruzione di Chicago, il trionfo a trecentosessanta gradi del capitale, i primi atti di disobbedienza dei lavoratori, i grandi scioperi e i crumiri violenti, la costruzione della segregazione razziale, l’elezione Tilden-Hayes e il Compromesso del 1877, l’immigrazione dall’Europa meridionale e orientale, l’ingresso di 320.000 cinesi in America attraverso San Francisco, il voto alle donne, il movimento proibizionista, i populisti, i riformatori progressisti, figure come Charles Sumner, Thaddeus Stevens, William Lloyd Garrison, Frederick Douglass, il presidente Lincoln, Jane Addams, Elizabeth Cady Stanton, Henry Clay Frick, Andrew Carnegie, J. P. Morgan, John D. Rockefeller, ecc. La mia mente è piena di tutte queste cose. Nuoto, seguo il baseball, guardo i panorami, vedo qualche film, ascolto musica, mangio bene, vedo gli amici. In campagna adoro la natura. Non mi resta quasi tempo per preoccuparmi costantemente della vecchiaia, della scrittura, del sesso e della morte. Alla fine della giornata sono troppo affaticato».
Cynthia Haven, giornalista e ricercatrice all’università di Stanford ha intervistato Philip Roth http://bookhaven.stanford.edu/ 2014/02/an-interview-withphilip- roth- the- novelistsobsession- is- with- language/ Pubblicazione autorizzata da Wylie Agency
(Traduzione di Fabio Galimberti)