Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 22 Sabato calendario

KIEFER SUTHERLAND “CHE SFIDA CONFRONTARMI CON MIO PADRE”


Talis pater, talis filius. Un po’ di latino Kiefer Sutherland ha dovuto studiarlo, se non altro per entrare nella parte, prima di interpretare un senatore romano in Pompei, suo ultimo film. Ma la massima latina riflette anche il suo rapporto con Sutherland senior, Donald, suo padre: si somigliano come due gocce d’acqua, «in verità lui è più alto, ma il paragone mi sta bene perché penso che papà sia un gran figo», e soprattutto fanno lo stesso mestiere. Adesso hanno appena finito di girare una pellicola in cui per la prima volta, Kiefer a 47 anni, Donald a 78, compaiono insieme: un western sullo sfondo della guerra civile americana che sembra fatto apposta per un confronto generazionale.

«È la storia di un ex-soldato sudista che torna a casa e ritrova il vecchio genitore con cui non ha mai avuto un dialogo », dice Kiefer. «Così hanno finalmente l’occasione di conoscersi meglio». È successo anche a loro due, sul set? «La sera prima di cominciare le riprese gli ho telefonato e gli ho confessato di essere un po’ nervoso all’idea di recitare al suo fianco. Ah sì, ha risposto, beh io me la faccio addosso! Poi il giorno dopo eravamo piuttosto tesi, era tutto un, prego prima tu, no prima tu, finché papà non mi ha dato una delle sue occhiate di traverso, se n’è uscito con un “fuck you”, siamo scoppiati a ridere e da quel momento ha funzionato tutto per il verso giusto».
Come in una commedia americana, vero? Eppure non c’è solo da ridere. È stato Kiefer, che è anche produttore del film (data di uscita non ancora prevista, titolo provvisorio The forsaken, Il reietto, regista Jon Cassar, lo stesso dell’ultima serie di 24, il telefilm a puntate che ha segnato il successo di Sutherland junior), a volere suo padre per la parte. «Sembrava l’occasione perfetta», racconta in un salottino del Soho Hotel di Londra, albergo a cinque stelle molto “hip”, come si conviene visto il quartiere che gli sorge intorno. «Un po’ come quando Henry e Jane Fonda hanno recitato per la prima volta insieme in Sul lago dorato. Bisogna aspettare l’opportunità adatta. E allora il fatto di essere un genitore e un figlio, nel film come nella realtà, fa scattare qualcosa di speciale anche sullo schermo».
Padri e figli. Nel cinema, in qualunque professione, nella vita. Un tema da romanzo (Turgenev, per citarne uno) e da lettino dello psicanalista (chiedere al dottor Freud). Suo padre lo ha mai incoraggiato a fare l’attore? «No, mai. È che sia lui, sia mia madre, un’attrice teatrale di grande talento, conoscevano bene le incertezze di questo mestiere. Sapevano quanto basse siano le probabilità di farcela, di ottenere gratificazioni, di essere accettati. Forse ancora di più per un figlio d’arte, verso il quale c’è sempre il sospetto che sia stato solo raccomandato, che non valga niente o che comunque non valga quanto loro. Insomma avrebbero entrambi preferito che io facessi qualsiasi mestiere, tranne il loro». E poi com’è andata? «È andata che a 19 anni sono praticamente scappato di casa per fare l’attore, ho cominciato a studiare recitazione per conto mio, e mio padre, quando ha visto che ero davvero appassionato e convinto, a quel punto mi ha appoggiato in pieno».
La scommessa si può dire riuscita. Difficilmente Kiefer poteva eguagliare una carriera come quella paterna, costellata di titoli rimasti nella storia del cinema, da Una sporca dozzina a Una squillo per l’ispettore Klute, da Masha Il giorno della locusta per finire con il Casanova di Fellini. Ma è diventato anche lui una stella di Hollywood, grazie a decine di film e in particolare al serial 24, che gli ha fatto vincere praticamente tutti i premi esistenti per la televisione. «Se vuoi fare l’attore, fallo in tivù», osserva ridendo, «in una serie in cui devi recitare una puntata dopo l’altra, inventando di continuo». Quando ha accettato Pompei, una megaproduzione hollywodiana in 3D che arriverà sui nostri schermi nei prossimi giorni, interamente girato nella città-museo all’ombra del Vesuvio («l’hanno chiusa per due settimane per il film, non era mai successo prima»), Kiefer era pieno di adrenalina, saltava su e giù come una molla: «Poi il regista mi ha detto di rilassarmi, darmi una calmata, i tempi del cinema sono più lenti e più lunghi». E gli sono andati bene anche quelli, così come il ruolo di “cattivo”, che non gli è familiare, visto che in 24è l’eroe che salva l’America dal terrorismo: «Ma ogni tanto è interessante fare un personaggio all’opposto di come uno è veramente».
A suo padre piace il detective di 24, che sta per partire con una nuova serie di dodici puntate? «Una volta mi ha detto che si comprava tutta la serie in dvd per non doverla guardare con le interruzioni pubblicitarie. Mi ha fatto piacere». E per lui invece quale è il film più bello di suo padre? Ci pensa un attimo. «Sono troppi. Ma il primo che mi viene in mente è Dont’ look now(A Venezia un dicembre rosso shocking) di Nicolaes Roeg». Era una coproduzione indipendente italo-britannica. E per coincidenza Kiefer deve il suo nome a un’altra sorta di coproduzione italo-britannica: il primo film mai girato da Donald Sutherland, Il castello dei morti vivi, nel 1964, era diretto da un certo Lorenzo Sabatini, che in realtà si chiamava Warren Kiefer. Era l’epoca in cui attori e registi italiani si spacciavano per americani, e magari quelli inglesi per italiani. «In qualche modo così sono un po’ italiano anch’io», scherza Sutherland junior, sebbene dietro il suo passaporto canadese, con nascita a Londra, ci siano lontane origini scozzesi e tedesche.
Ma lui consiglierebbe a un figlio di fare il suo stesso lavoro? «No, e infatti ne avrei voluto uno diverso per mia figlia, che avrebbe potuto diventare una studiosa, conosce il latino e il greco antico, ma ha voluto fare l’attrice anche lei, di teatro, come mia madre. Come mio padre con me, anch’io alla fine mi sono convinto che era una passione genuina e l’ho appoggiata e penso che sia bravissima». In generale, è un bene o un male seguire le orme paterne? «È un rischio, perché il padre teme che il figlio fallisca e il figlio teme di deludere le aspettative del padre. Ci sono anche dei vantaggi innegabili, però: ricevere aiuto, insegnamento. Io facevo i compiti sul set o a teatro, era un mondo che adoravo fin da piccolo. E poi, se va a finire tutto bene, c’è il piacere che prova un genitore se suo figlio segue la sua stessa strada: vuol dire che ti stima, apprezza quello che fai. Mio padre per esempio aveva paura che lo considerassi un cattivo padre, perché non era mai a casa per via dei film. E invece io lo amavo lo stesso e quella sua vita zingara faceva parte di quello che mi affascinava nel cinema. Così oggi ho una vita da girovago anch’io». Tale il padre, tale il figlio.