Federico Fubini, la Repubblica 22/2/2014, 22 febbraio 2014
DETASSARE IL LAVORO E COLPIRE LE RENDITE ECCO LA RICETTA DEL “TECNICO-POLITICO” PER MANTENERE IL DEFICIT ENTRO IL 3%
Pier Carlo Padoan non si aspettava che sarebbe toccato a lui adesso: pensava che sarebbe stato la volta scorsa. Agli amici, solo a cose fatte, aveva ammesso che Pierluigi Bersani l’aveva sondato con ampio anticipo come possibile ministro dell’Economia nel caso in cui il Pd avesse vinto le elezioni. Economista di professione, romano di 64 anni con lunghi soggiorni di lavoro negli Stati Uniti e in Francia, Padoan già allora aveva il profilo perfetto per il dicastero di Via XX Settembre di un governo di centrosinistra.
Così politico da essere stato chiamato da Massimo D’Alema a Palazzo Chigi come consigliere economico nel ’99 (poi confermato da Giuliano Amato). E così «tecnico» da aver lavorato - bene - da direttore esecutivo all’Fmi sotto ministri come Vincenzo Visco e poi Giulio Tremonti, e da diventare poi capoeconomista dell’Ocse grazie alle sue capacità e non alla spinta di questo o quel politico. Il curriculum di Padoan era il punto d’equilibrio che serviva a Bersani, se mai fosse diventato premier. Poi però il voto di un anno fa è andato com’è andato. E a un ruolo in un governo di Matteo Renzi questo professore di macroeconomia della Sapienza non ci aveva proprio riflettuto. Fino ai giorni scorsi, del resto, i due non si conoscevano.
Non che le opinioni di Padoan non fossero ben note. Da capoeconomista dell’Ocse, il club dei paesi avanzati con sede a Parigi, il futuro ministro dell’Economia di recente aveva firmato un rapporto che presentava sull’Italia una versione diversa da quella del governo. La crescita del 2014 è prevista allo 0,6% e non all’1%, come invece risulta in tutti i documenti del Tesoro dove tra poco Padoan si insedierà. Il deficit viene fotografato al 2,8% del Pil e non al 2,5%. Il debito in aumento al 133,2% e non, come diceva il ministro Fabrizio Saccomanni, in calo dopo sei anni di aumenti. Quel rapporto della squadra di economisti di Padoan avvertiva anche che «sarà necessaria una stretta di bilancio almeno di tanto quanto previsto dal governo (Letta, ndr)» dato che «il rapporto tra debito e Pil sta ancora aumentando ». Poco prima, in un’intervista a Repubblica, Padoan aveva sostenuto qualcosa di simile: «Il fatto che l’Italia sia fuori dalla procedura per deficit eccessivo è un bene» perché, aveva continuato, «rassicurare gli investitori internazionali sull’impegno del Paese può essere prezioso ».
Affermazioni del genere nei mesi scorsi hanno procurato al futuro ministro l’onore di diventare oggetto dell’ira corrosiva di Paul Krugman. Nel suo blog sul New York Times, il più keynesiano dei premi Nobel aveva scritto che l’Ocse dà «i consigli peggiori di qualunque organizzazione internazionale: peggio della Commissione europea, peggio persino della Bce». Krugman ha anche accusato Padoan di essere «fra i più grandi sostenitori dell’austerità, che con il loro tifo hanno spinto l’Europa al disastro», con annesse citazioni da George Orwell sul blog.
Padoan ha letto molto Orwell. Ma se ha avuto il tempo di leggere anche il blog di Krugman, probabilmente non si sarà riconosciuto nel proprio ritratto. Perché la sua preoccupazione per la crescita del debito pubblico italiano, confidata spesso anche in privato, è dettata dai numeri. E gli inviti dell’Ocse al governo Letta a «continuare le riforme intraprese » riguardano sì certamente la spending review e l’obiettivo di ridurre la spesa per tagliare le tasse. Ma il prossimo inquilino della scrivania di Quintino Sella è tutt’altro che indifferente alla tensione sociale che si respira nel Paese. Ne parlava già all’inizio della grande recessione, nell’aprile 2008: «In Italia i redditi più bassi sono al limite del tollerabile e sarebbe opportuno un intervento. I trasferimenti diretti alle famiglie avrebbero un impatto immediato sul tenore di vita e sosterrebbero i consumi».
Soprattutto, da tempo Padoan è convinto che il debito inizierà a scendere solo se l’Italia ritroverà la capacità di crescere persa una generazione fa. Secondo il capoeconomista dell’Ocse, questo significa in primo luogo che «rispettare il 3% nel rapporto fra deficit e Pil non è tutto», dunque bisogna detassare il lavoro e le imprese coprendo gli ammanchi con minori spese e maggiori imposte sui fattori meno produttivi: le rendite da capitale e la tassazione degli immobili. Spesso in questi mesi l’Ocse ha espresso i suoi dubbi sulla strategia del governo Letta volta a eliminare l’Imu sulla prima casa.
L’altro fronte che Padoan guarda da vicino è quello del credito e della liquidità alle imprese. Su entrambi i temi senz’altro il nuovo ministro intende impegnarsi fin da subito. Nei mesi scorsi aveva incoraggiato il governo ad accelerare il pagamento dei debiti commerciali, «in modo da evitare la chiusura di imprese sane». Nel 2013 il governo uscente ha saldato 22 miliardi di arretrati ma, contrariamente agli impegni, non ha mai comunicato due dati essenziali per capire la situazione reale: non si sa a quanto esattamente ammontano in totale i debiti commercia-li, né quanti di essi siano stati pagati negli anni precedenti. Senza queste informazioni, è impossibile valutare l’effetto sull’economia dei 22 miliardi di pagamenti di arretrati già fatti nel 2013. Padoan dovrà ripartire da qui.
Altrettanto complesso il dilemma sul credito bancario. Nei mesi scorsi, quando era all’Ocse, l’economista era convinto che il credit crunch fosse dovuto in buona parte al timore delle banche di prestare alle imprese. All’epoca Padoan pensava a nuove forme di garanzia pubblica (o semipubblica) per il credito bancario, «fornite per esempio da Cassa depositi e prestiti». Ma la storia italiana sta correndo in fretta, ora che il Paese cerca in qualche modo di uscire dalla sua recessione più lunga in tempo di pace. Ciò che sembrava plausibile poco fa ora diventa difficile, e viceversa. Pochi mesi possono sembrare un’eternità o un istante. Se anche glielo avesse giurato Bersani, Padoan non ci avrebbe mai creduto.