Goffredo De Marchis, la Repubblica 22/2/2014, 22 febbraio 2014
HO DOVUTO FORZARE NON HO PIÙ ALIBI
DUE ore e quarantacinque minuti di tensione al Quirinale. L’incontro tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano comincia in salita. Il ritardo con il quale il premier incaricato raggiunge lo studio del presidente della Repubblica viene sottolineato, anche perché era stato l’ex sindaco ad annunciare l’orario. Ma per l’attenzione ai dettagli del capo dello Stato, è ancora più grave la lista dei ministri che gli viene consegnata.
NON è la stessa giunta al Colle poche ore prima, presenta delle caselle vuote e alcuni ballottaggi, proprio come nei totoministri che si sono letti sui giornali.
Una falsa partenza, che è solo il preludio a una dura trattativa sui nomi. Ma è evidente che il lunghissimo colloquio di ieri rappresenta un cambiamento di fase nei rapporti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Dopo l’epoca dei governi tecnici o semi-tecnici inevitabilmente legati a doppio filo al Colle, Renzi “fa il Renzi” anche in quest’occasione, rottamando le prassi degli ultimi anni. «Volevo un governo ancora più politico, ma non funzionava. Allora ho forzato, ho puntato tutto sul fatto che si passasse dal Letta-Alfano al governo Renzi — racconta ai fedelissimi il premier —. Perché sia chiaro: questo governo risponde solo a me. Se sbagliamo è colpa mia, solo mia. Se c’è una responsabilità è mia, punto. Non ci sono più alibi».
Dopo i preliminari, inizia la partita sui ministeri. Un ping pong e si può quasi immaginare un pallottoliere che registra i punti nella sfida delle conferme, degli spostamenti, dei nomi cassati. Napolitano individua i punti critici: Giustizia, Esteri e Sviluppo economico. Il nodo dell’Economia invece appare risolto in anticipo: non c’è il politico sognato da Renzi, ma un tecnico come voleva il capo dello Stato. «Ma Padoan non è Saccomanni. Poletti è uno straordinario uomo di sinistra, uno che quando ci saranno le crisi aziendali andrà in mezzo alla gente anzichè stare seduto burocraticamente al tavolo del negoziato », dice Renzi quando torna al Nazareno.
Al ministero di Via Arenula, Renzi punta tutto sul procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, simbolo della lotta alla criminalità. Nella sua lista il nome del magistrato è scritto a caratteri cubitali. Il premier difende la scelta. «Per me è il candidato migliore, non voglio cedere. È il segnale più importante della discontinuità che intendo dare al mio esecutivo». Qui il braccio di ferro va in scena platealmente. «La regola non scritta per la Giustizia è mai un magistrato in quel dicastero. Mai», replica Napolitano. Renzi insiste, affronta il presidente, che però lo stoppa: «Questa regola è insormontabile ». Un punto a favore del Quirinale.
Scatta l’effetto domino che attraversa l’intera squadra. Andrea Orlando si sposta dall’Ambiente a Via Arenula. Va bene a Renzi perché «Andrea è un dirigente della sinistra e faceva il responsabile giustizia con Bersani». Va benissimo al presidente che lo conosce da tempo. Per gli aggiustamenti in corso d’opera, il premier è costretto a lasciare lo studio di Napolitano. Si rifugia nel “salottino napoleonico” a telefonare, giustificando la trombatura dei papabili, discutendo con i partiti i cambiamenti dell’ultimo minuto. Così se ne va un’ora. Ma sugli Esteri il punto lo segna il segretario del Pd.
Napolitano non ha veti personali sul nome di Federica Mogherini ma difende la continuità della politica diplomatica in un «momento internazionale difficile». Vuole la conferma di Emma Bonino. Renzi s’impunta e sa che può forzare. «Da oggi in Italia non vale più che una donna di 40 anni non possa andare alla Farnesina — spiega —, non vale più che una donna non sia adatta al ministero della Difesa. È una risposta alle politiche di questi anni che non mi sembrano piene di successi». Mogherini viene descritta da Renzi come «una tosta, anche spigolosa ». Gli piace. «Eppoi l’obiettivo era dare alle donne un ruolo non ornamentale». Vale anche per Federica Guidi, sulla quale Napolitano ha dei dubbi per il vecchio ruolo in Confindustria. «Però il pacchetto economico va visto nel suo complesso — risponde Renzi —. Dovevo riequilibrare politicamente Padoan e Poletti. E la Guidi sa parlare sia con le imprese sia coi lavoratori».
Gli ultimi due sono quindi punti segnati da Renzi, che il capo dello Stato lascia passare perché la Mogherini la conosce da anni e perché lo Sviluppo economico non è certo il ministero della Giustizia. Renzi twitta dal salottino “Arrivo, arrivo”, rivolto ai giornalisti e al pubblico collegato ai siti e alle tv. È soddisfatto, si vede: «C’è un elemento simbolico in questo passaggio. Oggi il figlio di un insegnante di ginnastica che un giorno si è messo in testa di fare l’imprenditore può diventare presidente del Consiglio e fa un governo di questo tipo. Capite cosa significa? Significa che le barriere saltano». A chi gli dice che il “governo di questo tipo” somiglia a un Letta bis risponde: «So che non è il governo Leopolda, con le facce nuove e il linguaggio di quella manifestazione. L’avrei fatto se avessi vinto le elezioni. Non è andata così». Ma sono parole che non sconfessano la squadra chiamata stamattina al giuramento solenne al Quirinale, anzi. «Non c’è un renziano nella lista, ad eccezione di Delrio e della Boschi. Ed è il governo più di sinistra degli ultimi 30 anni, con una nuova generazione che si prende una straordinaria responsabilità».