Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 22/2/2014, 22 febbraio 2014
PIAZZA DELLA LOGGIA, STRAGE SENZA TEMPO SI CELEBRERÀ IL DODICESIMO PROCESSO
[La Corte di cassazione apre un nuovo capitolo processuale su piazza della Loggia. Con la sentenza di ieri mattina sulla strage di Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974, la Suprema corte assolve definitivamente l’ex ordinovista veneto Delfo Zorzi (che oggi vive in Giappone col nome di Hagen Roy) ma annulla le assoluzioni in secondo grado di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, disponendo un nuovo dibattimento davanti alla Corte d’assise d’appello. «Con la strage di Brescia non c’entro. Come per tutte le altre vicende in cui sono stato chiamato in causa e che si sono risolte con il riconoscimento della mia estraneità», ha commentato ieri Maggi. Anche lui e Tramonte appartenevano al mondo della destra estrema; Tramonte, col nome di «fonte Tritone» era un informatore dei servizi segreti proprio negli anni della strage. Il ritrovamento negli anni 90 di alcune «veline» con cui avvertiva gli investigatori di ciò che avveniva negli ambienti neofascisti diede impulso alle indagini sfociate nell’ultimo processo. Nell’esplosione, 40 anni fa, morirono 8 persone e altre 100 rimasero ferite. Da allora, cinque istruttorie, 11 processi e nessun colpevole.]
I due «figli della bomba» erano seduti uno accanto all’altro, davanti ai giudici. Uno indossava la toga, l’altro no. Poi quello in toga s’è alzato per rivolgersi alla corte: «Sono l’avvocato Michele Bontempi, rappresentante di alcune parti civili tra cui Giorgio Trebeschi che oggi è qui — ha detto indicando l’altro —. È la vittima che ha sofferto di più, perché a nemmeno due anni d’età ha perso entrambi i genitori nella strage».
Quando scoppiò la bomba in piazza della Loggia, il 28 maggio 1974, Bontempi aveva un anno e quattro mesi, Trebeschi uno e mezzo. I loro genitori erano amici, quelli di Giorgio furono dilaniati dall’esplosione, il padre di Michele rimase ferito. Divenuti uomini, ognuno ha preso la sua strada. Giorgio, cresciuto con lo zio Arnaldo, è stato per lungo tempo all’estero, ora s’è stabilito a Roma; Michele è rimasto a Brescia, è diventato avvocato e nel procedimento per la strage s’è aggiunto alla pattuglia di legali di parte civile. Sostenendo le ragioni di quel suo amico d’infanzia rimasto orfano a nemmeno due anni. Ecco perché adesso i «figli della bomba» salutano con soddisfazione mista a commozione l’ordine della Cassazione di celebrare un nuovo processo. Anche se sono passati quarant’anni.
«A nostro parere ci sono prove valide per affermare la colpevolezza di alcuni imputati — spiega l’avvocato Bontempi —, e finalmente abbiamo trovato dei giudici che hanno riconosciuto la nostra impostazione. Ci sono elementi per affermare una verità fondata su dati di fatto, non su sospetti o teorie». Ora sarà un altro dibattimento — il dodicesimo — a stabilire se si tratta di prove sufficienti a condannare. Ma il nuovo rinvio a giudizio per l’ex capo del gruppo veneto di Ordine nuovo (formazione neofascista sciolta nel 1973 dal ministro dell’Interno) Carlo Maria Maggi, e per Maurizio Tramonte, militante di quella galassia nonché informatore del Sid, il servizio segreto militare dell’epoca, ha almeno due significati. Da un lato conferma la responsabilità dell’eversione nera di quella stagione, non solo come ambiente generico ma con un gruppo specifico guidato all’epoca proprio da Maggi (assolto finora con motivazioni contraddittorie e poco logiche, secondo la Cassazione); dall’altro la validità delle informazioni passate da Tramonte al Sid e nascoste dal Sid per quasi vent’anni, fino alla casuale scoperta, da parte di un magistrato, delle «veline» in cui erano state trascritte.
È quello il più clamoroso e evidente depistaggio (tra i tanti) che ha contribuito a impedire di fare luce sull’attentato dal più esplicito significato politico della «strategia della tensione»: una strage che ha colpito non una banca o un treno, bensì una manifestazione antifascista organizzata dai sindacati per protestare proprio contro la violenza. Apparati dello Stato che sapevano hanno taciuto, e nascosto le prove. L’hanno denunciato con forza, negli ultimi due processi di Brescia, i pubblici ministeri e gli avvocati di parte civile. Senza ottenere ciò che, a loro avviso, derivava anche da quelle coperture studiate a tavolino: la dichiarazione di colpevolezza degli imputati. Temevano di aver perso ogni possibilità finché l’altro ieri il sostituto procuratore generale Vito D’Ambrosio ha chiesto per primo l’annullamento delle sentenze di assoluzione. E s’è riaperta la speranza.
Anche il magistrato D’Ambrosio, alla luce del verdetto della Cassazione, esprime la propria soddisfazione: «Si apre una nuova opportunità di avere un quadro più convincente su quel che è accaduto in quegli anni terribili, di cui piazza della Loggia rappresenta l’episodio più particolare e significativo». Certo, dopo quarant’anni e con il principale imputato che ne sta per compiere ottanta — Maggi — è difficile esultare. Ma era la resa che risultava inaccettabile, per i familiari delle vittime. Ecco perché, per paradossale che possa apparire, Manlio Milani, che il 28 maggio 1974 era alla manifestazione insieme alla moglie Livia rimasta uccisa, alla lettura della sentenza che riapre i giochi esprime soddisfazione: «Meglio di così non poteva andare — commenta —. Io capisco tutte le perplessità per via del tempo trascorso e che trascorrerà ancora prima dell’ultimo giudizio, ma oggi è una giornata importante perché significa che ci si può riconciliare con le istituzioni. Grazie anche a tutti quei magistrati che hanno continuato a cercare la verità e continueranno a farlo».
Milani, che in quarant’anni non ha smesso un giorno di dedicarsi alla causa per cui morirono sua moglie e altri amici e compagni che stavano in piazza con loro, è diventato un po’ il padre adottivo dei «figli della bomba» e di tutta la piccola comunità di avvocati e studiosi, giovani e meno giovani, che con lui si sono dedicati alla battaglia storica e processuale. Finora avevano sempre perso, tra «atomizzazione degli indizi» e «valutazioni distorte»; ieri hanno vinto, e nel «palazzaccio» immenso e severo della Cassazione qualcuno tra loro s’è sciolto in lacrime, per sfogare tensione e gioia. Consapevole di aver contribuito — con le ricostruzioni che al di là delle responsabilità individuali disegnano una strategia complessiva dietro la bomba di Brescia — a scrivere un piccolo pezzo di una grande storia ancora piena di zone d’ombra. Che riguarda l’intero Paese. Le vite spezzate non potranno avere risarcimenti adeguati però, come sostiene Milani col solito tono di voce pacato ma fermo, «questo risultato ci consente di ricordare con qualche senso e ragione i morti e i feriti di piazza della Loggia, e tutti coloro che quel giorno parteciparono alla manifestazione».