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 2014  febbraio 22 Sabato calendario

LA STANZA DEL VESCOVO È LA MIA VERA CULLA


[Andrea Vitali]

Conosce bene un vecchio adagio: per raccontare l’universo, basta raccontare il proprio borgo. Andrea Vitali, 58 anni il 5 febbraio, è il cantore dell’epopea di Bellano, Belàn in dialetto laghée, 3.300 abitanti, sponda lecchese – e quindi meno nobile, almeno in teoria – del Lario. Al suo paese ha dedicato una quarantina di libri, vendendo milioni di copie. L’hanno tradotto in mezzo mondo.
In provincia il successo dei propri figli è spesso oggetto di una rimozione collettiva e quindi Vitali, a Bellano, è ancora «l’Andrea», o al massimo «el sciur dutùr», perché oltre che uno scrittore è anche uno dei due medici di base del paese. Ha un illustre predecessore: Sigismondo Boldoni, bellanese anch’egli medico e scrittore al tempo stesso. In una piccola piazza una lapide ne ricorda la breve permanenza su questa Terra: Boldoni non ebbe fortuna perché nel 1630, a trentatré anni, peste lo colse. La lapide è di fonte a un negozio di alimentari che sembra uscito da un libro di Vitali ambientato negli anni Cinquanta, anche se l’insegna rimanda addirittura al Web: «www.alimentarivitali.it». Parenti?, chiedo. Pare di no. «Qui a Bellano si chiamano quasi tutti Vitali», mi spiegano.
«L’Andrea» mi riceve a casa sua, dove s’è rintanato per finire il suo nuovo romanzo, dal titolo provvisorio Quattro sberle benedette, che uscirà a maggio per Garzanti. Su un tavolino c’è invece la prima copia di un altro romanzo ormai bell’e pronto, Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti, pubblicato da Rizzoli: sarà in libreria da mercoledì.
Come si usa esordire in questi casi le chiedo: Vitali, di che cosa parla il suo nuovo romanzo?
«Di due sorelle, anzi due sorellastre, che da Albate, nel Comasco, si trasferiscono a Bellano nel 1915, con la Grande Guerra sullo sfondo. Giovenca Ficcadenti è la sorella bella; Zenia quella brutta. L’epilogo della storia dimostra come la vita, a volte, si diverta a essere ingiusta».
Come e quando nasce lo scrittore Vitali?
«Avevo quindici anni e nella libreria di mio padre trovai un’edizione scassatissima di Don Camillo. Fu un fulmine a ciel sereno. Veniva fuori un profumo di vita reale. In quegli anni qui da noi c’era ancora un sentimento agricolo e la Bassa del Mondo Piccolo, nonostante la differenza geologica con Bellano, assomigliava molto al mio mondo piccolo. Nella casa di mia zia, per capirci, c’era la stalla. Guareschi è stato il mio primo amore».
Il secondo?
«Tolkien. A 17 anni divorai Il Signore degli anelli».
Come si avvicinava ai libri, in quegli anni, un ragazzo di paese?
«Ah questa è una bella domanda. Spesso, per caso. In famiglia compravamo la Vecchia Romagna Etichetta nera: si ricorda? Quella che crea un’atmosfera. La vendevano in un cofanetto con una bottiglia e tre libri: gli autori inglesi avevano la costa verde, i francesi rossa e gli americani marroni. Fu in uno di quei cofanetti che scoprii una nuova passione: Edgar Allan Poe. Il pozzo e il pendolo; La sepoltura prematura... Libri che a quell’età sarebbe stato meglio non leggere: per anni mi sono sognato di notte la lama che veniva giù e che mi seppellivano vivo. Ma da Poe credo di avere imparato tantissimo».
Andiamo avanti: un altro maestro?
«Buzzati. Un amico, il grande fotografo di vela Carlo Borlenghi, mi prestò i Sessanta racconti. Non glieli ho mai più restituiti. Anche quello fu un bel colpo di fulmine».
Voleva fare il giornalista: poi, però, ha fatto Medicina.
«Ma i libri sono rimasti lì, un chiodo fisso. Anni ’84-’85: con il mio primo stipendio da guardia medica, seicentomila lire al mese, cedetti alla gola e diventai cliente rateale Einaudi. Ti mandavano subito una cassa con cento libri a tua scelta, che pagavi con un super sconto; poi ogni mese dovevi ordinare qualcosa e pagare a rate».
Ricorda quando arrivò la cassa?
«Come fosse adesso. Rimasi lì in contemplazione per mezz’ora prima di tirar fuori i libri. C’erano Calvino, Rigoni Stern, Sciascia, Proust... C’era anche La Promessa di Dürrenmatt, che io non avevo ordinato: l’avevano messo dentro per far spessore, per tenere fermi gli altri volumi. Un libro fantastico: da quel momento Dürrenmatt è diventato uno dei miei autori preferiti. La Recherche invece confesso che non l’ho letta. Mi annoia».
A un certo punto arrivò Piero Chiara, laghée lui pure, anche se del Verbano. Non è Chiara il suo vero maestro?
«Sì, una volta ho detto che la mia vita è stata cambiata da La stanza del vescovo. Chiara mi ha insegnato che quelle che storie che si sentono in famiglia si possono raccontare anche agli altri. Storie legate al territorio, ai ricordi, all’aneddotica. Erano anni in cui Chiara veniva considerato uno scrittore di serie B. Ma leggi Nanni Balestrini!, mi dicevano. Chiara, Cassola e Bassani venivano paragonati a Liala. Mah. Io ricordo che quando partii per militare mi portai i libri di Chiara in caserma come antidoto alla malinconia».
Adesso chi legge?
«Sto rileggendo i classici. L’Odissea la rileggo ogni anno da più di dieci anni: colleziono tutte le traduzioni. Ho cominciato a provare nostalgia per le letture del liceo classico. Perché Prometeo è incatenato? Perché Zeus è arrabbiato con lui? Mi vengono queste curiosità. Nei classici trovi cose attualissime, capisci che noi non stiamo inventando niente: copiamo e basta. E poi devo ammettere che molti classici non li avevo mai letti: così, sto cercando di colmare delle lacune. Ho scoperto che certe poesie di Catullo sono più spinte di un film porno, ad esempio. Adesso sto leggendo il Viaggio in Italia di Goethe».
Quando riesce a leggere?
«La sera. Di tv ne vedo poca. Seguo il calcio inglese perché sono diventato tifoso del Chelsea per via di Mourinho, un personaggio straordinario, molto più che un allenatore; e poi guardo Ncis, una serie sui Marines che fanno su Sky. Ma di solito alle nove alle mezza sono già a letto con un libro in mano. Altrimenti, quando non vado a vedere il Como, che è la mia squadra del cuore, leggo la domenica pomeriggio, lì su quel divano dov’è seduto lei adesso, davanti a quel finestrone che guarda sul lago».
E quando scrive?
«La mattina. Al pomeriggio ho ambulatorio, giù in paese. Così la mattina scrivo. Rigorosamente a mano, con la matita. Poi ribatto sul computer ovviamente, anche perché la mia è una calligrafia incomprensibile. Da medico».
Del suo paese che ama tanto, lei è la vera massima autorità. È il medico, e quindi sa un po’ tutto di tutti. Ed è lo scrittore che fa conoscere Bellano in Italia e all’estero. Le hanno mai chiesto di fare il sindaco?
«Mi hanno chiesto di entrare in politica, qui in paese».
E lei?
«Neanche in fotografia. Neanche morto».