Dina D’Isa, Il Tempo 22/2/2014, 22 febbraio 2014
PIPÌ, L’ALTRO PINOCCHIO CHE NON AMAVA IL MONDO DEGLI UMANI
Un racconto «nella lingua parlata delle scimmie», scrive Carlo Lorenzini (in arte Collodi), all’inizio del racconto «Pipì o lo scimmiottino color di rosa», autentica gemma nascosta tra le carte del romanziere fiorentino, che descrive lo strano colore del pelo di un estroverso e imprudente scimmiottino: «una finissima lanugine di color vermiglio carnicino, come le foglie della rosa maggese». Da qui il curioso titolo del libro che è stato di recente pubblicato da Utet extra, una piccola ma preziosa collana di letteratura curata da Emanuele Trevi e Luna Orlando.
Tutti coloro che si sono piacevolmente imbattuti nella lettura di questo racconto sulle avventure del vivace scimmiottino, hanno di sicuro notato una similitudine (nemmeno troppo nascosta) con Pinocchio. Senza fare stretti o troppi paragoni con il capolavoro collodiano, occorre però ammettere che l’impressione è piuttosto veritiera, almeno in gran parte.
La disobbedienza e l’errore sono infatti i motori che danno la giusta energia per rendere Pipì e Pinocchio desiderosi di fare esperienze nella grande favola del mondo. Ma c’è soprattutto la curiosità alla base della psicologia dei due personaggi, pronti ad abbandonarsi con fiducia all’imprevisto, voltando le spalle con ingenua disinvoltura alle certezze della quotidianità.
Un’altra parentela tra i due emerge durante le loro infinite peripezie: sia Pinocchio sia Pipì mostrano di continuo la purezza del loro cuore e, pur sbagliando, pur non rispettando le regole imposte dagli adulti, non mancano però di tenere fede alla bontà (non buonista) del loro temperamento. E grazie a questa loro straordinaria qualità è facile perdonarli e ammirarli. Ed è proprio nella creazione di questi personaggi che si riconosce la grandezza di Collodi, che rivela il suo codice morale, affrancandosi da ogni forma di moralismo imposto dall’alto delle istituzioni sociali o familiari. Allo stesso modo, la lingua collodiana conserva quel miracoloso equilibrio di trasparenza e di ingegnosa perspicacia che ha contribuito a farne uno dei più geniali autori della letteratura classica italiana.
Quando Pipì si troverà a indossare, come un umano, scarpe e vestiti, davanti a uno specchio esclamerà: «Oh, come sono brutto! Mi hanno vestito da uomo... E sono diventato un mostro da far paura». Pipì non condivide il desiderio di Pinocchio di diventare bambino (premiato nella sua trasformazione umana solo alla fine quando salverà il padre). Pipì non vuole appartenere al mondo umano, ma ama - come Pinocchio - dire bugie, non mantenere promesse, non dominare le golosità né le curiosità.
Anche nelle avventure dello «Scimmiottino color di rosa» appare la fata: ma qui ha un figlio, Alfredo, con il quale la mamma fatata vuole mandare lo scimmiottino a fare un lungo viaggio. Ma Pipì non ci sta a vestirsi di tutto punto come un ragazzo, con gli scarponcini, i calzoncini, il giubbetto e persino il fiocchetto di seta a mo’ di cravattino. A Pipì non rimane che la fuga da quel mondo che gli impone le regole del vestire e delle buone maniere, per tornare dalla sua allegra e affettuosa famiglia. Ma la fata - si sa - alla fine vuole avere sempre ragione ed è così che si riprende Scimmiottino con l’intenzione di condurlo verso il lungo viaggio dell’istruzione.
Al termine del racconto si percepisce che, in queste pagine, Collodi sembra quasi preannunciare «Il viaggio intorno all’Italia» con tutte quelle avventure che lo scrittore fiorentino non fece, però, in tempo a scrivere. Collodi morì, infatti, prima di realizzare un altro romanzo: venne stroncato da una morte improvvisa, la sera del 26 ottobre 1890, prima di godere dei suoi meritati e grandi successi.
Dina D’Isa