Mariarosa Mancuso, Sette 21/2/2014, 21 febbraio 2014
MILIONI DI VITE RACCHIUSE IN 12 ANNI
Salomon Northup era nero e libero. Viveva a Saratoga, nello Stato di New York. Aveva moglie e figli, si guadagnava da vivere suonando il violino. Con la promessa di un lavoro ben pagato lo attirarono a Washington, dove la schiavitù nel 1841 era legale. Rapito, incatenato, senza più documenti, finì a tagliare canna da zucchero e a raccogliere cotone in Louisiana. Ebbe un padrone che pur senza mettere in discussione il commercio di esseri umani era devoto a Dio e lo trattò senza troppo infierire. Ebbe un altro padrone che trattava gli schiavi (e le schiave) con scientifica crudeltà. In 12 anni concentrò tutte le sofferenze patite da milioni di africani prima di lui.
Steve McQueen scoprì l’autobiografia di Salomon Northup (da Newton Compton, stesso titolo del film) quando già aveva deciso di girare un film sugli schiavi. Come racconta in un’intervista, non sapeva da che parte cominciare. Aveva una sola certezza: raccontare la ribellione di un nero che aveva conosciuto la libertà e l’aveva perduta, non la rassegnazione di chi era nato schiavo. Astuta mossa che aiuta lo spettatore a identificarsi con il personaggio: 12 anni schiavo è il film più popolare girato finora dal regista britannico. Letto il memoir – fu pubblicato nel 1853, un anno dopo La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, «la piccola donna che fece scoppiare una grande guerra», secondo Abraham Lincoln – non ebbe dubbi: «È un libro fondamentale quanto Il diario di Anna Frank».
Sul Guardian, in una rubrica intitolata Reel History, lo storico Alex von Tunzelmann misura le libertà che i registi si prendono con i libri di storia. Il produttore Samuel Goldwyn diceva che «niente è peggio di un film storicamente corretto ma noioso», qualche aggiustatina torna sempre comoda. In The Butler - Un maggiordomo alla casa Bianca, diretto da Lee Daniels, tra il vero Eugene Allen e il maggiordomo di fantasia chiamato Cecil Gaines contiamo tutte le differenze che servono per un personaggio esemplare, dove ogni dettaglio rimanda alla storia americana. Un figlio che va a combattere in Vietnam e un figlio che si arruola nelle Pantere Nere sono lì per segnare la differenza rispetto alle lotte per i diritti civili degli Anni 60.
12 anni schiavo è fedelissimo all’autobiografia di Salomon Northup, che a sua volta trova conferma nei ricordi di chi possedeva schiavi e piantagioni. Vale anche per la scena più atroce del film, un’impiccagione prolungata. Lo schiavo viene appeso per il collo a un albero, la punta dei piedi tocca appena il terreno. Per un’intera giornata, mentre attorno a lui servi e padroni sbrigano tranquillamente le loro faccende. Ha la potenza e l’orrore di una lunga crocifissione, e non è il solo riferimento biblico: l’abolizionista Brad Pitt ha lunghi capelli e barba da Cristo Salvatore.
Aspettando l’Oscar. L’insistita rappresentazione della violenza ricorda i precedenti film del regista, entrambi con il suo attore prediletto Michael Fassbender: Hunger, sullo sciopero della fame dell’irlandese Bobby Sands, e Shame, su un uomo ossessionato e consumato dal sesso. Storie tragiche, messe in scena con l’eleganza e la freddezza dell’artista visivo che nel 1999 aveva vinto un Turner Prize. Qui il realismo prevale, grazie alla bravura degli attori Chiwetel Ejiofor, Lupita Nyong’o, e ancora Fassbender, tutti e tre candidati agli Oscar assieme al regista, al film, ai costumi, alla sceneggiatura, al montaggio, alla scenografia. Ma tra le lacrime e le sofferenze, i preziosismi di regia e i dettagli più estetizzanti che narrativi si notano ancora.