Sara Gandolfi, Sette 21/2/2014, 21 febbraio 2014
IL CIBO PRONTO FUNZIONA COME UNA DROGA
Il supermercato come un campo di battaglia, costellato di mine pronte a esplodere. Frigoriferi e dispense ricolmi di cibi pronti e merendine, studiati a tavolino per renderci dipendenti dai prodotti della grande industria alimentare. Le nostre papille gustative ormai assuefatte a dosi consistenti (e dannose) di sale, zucchero e grassi. Quasi fossimo, noi clienti di quel supermercato, dipendenti da una nuova forma di droga: il mangiar male.
È la tesi, scioccante e ben documentata, dell’ultimo libro-inchiesta del giornalista Michael Moss, penna del New York Times e premio Pulitzer nel 2010: Grassi, dolci, salati. Come l’industria alimentare ci ha ingannato e continua a farlo (Mondadori, 464 pp., 20 euro). Le aziende, si sa, vogliono far soldi, vendono ciò che il pubblico vuole, spesso senza farsi troppi scrupoli. Le multinazionali del cibo, però, a detta di Moss vanno ben oltre: creano nuovi desideri, che non sono innati nell’uomo, come la “brama” di sale. «Hanno scoperto che massimizzando la quantità di sale, zucchero e grassi negli alimenti, i consumatori non soltanto li apprezzano di più ma ne vogliono e quindi ne consumano sempre di più», spiega in un’intervista esclusiva a Sette. «L’utilizzo di queste tre sostanze non è, però, indiscriminato: studiano in laboratorio le dosi “perfette” per raggiungere quello che gli addetti ai lavori definiscono il bliss point, o “punto di beatitudine”. Sono formule studiate a tavolino per far svuotare gli scaffali dei supermercati».
Dolce dipendenza. La dolcezza, per esempio, non è più un elemento essenziale soltanto dei dessert. Lo zucchero viene ormai aggiunto in molti altri alimenti progettati a tavolino, dal pane allo yogurt, dalle salse al ragù. «Così le multinazionali del food hanno creato artificialmente in tutti noi, e specialmente nei bambini, il bisogno di trovare il sapore dolce in tutto ciò che mangiamo. Il che rende l’amarezza di alcuni alimenti base, come molte verdure, sempre più difficile da accettare».
Ancora più stupefacente è il nostro “desiderio compulsivo” di sale, che non esiste in natura. «Alla nascita, a nessuno piace il sale, ma molti bambini vengono nutriti fin da piccoli con alimenti pensati per ragazzini più grandi, ricchi di sale. È in questo modo che il marketing dell’industria alimentare sta creando nuovi bisogni, abituando i giovani, fin dalla più tenera età, ad apprezzare e desiderare alimenti ipersalati».
Un’operazione deliberata e ponderata, con l’aiuto della scienza. Gli esempi si sprecano, nel libro di Moss. Produrre una nuova bibita gassata, garantendo che susciti una voglia insaziabile, richiede complicati calcoli matematici dell’analisi di regressione e complessi grafici per tracciare il bliss point. Alterando anche la struttura del prodotto di base, denuncia Moss. Alla Cargill, principale fornitore mondiale di sale, per esempio, gli scienziati polverizzano il sale fino a ottenere una polvere sottile per colpire le papille gustative in modo più rapido e forte, un’“esplosione di sapore”. Anche lo zucchero viene modificato in vari modi. La sua componente più dolce, il fruttosio, viene cristallizzata e trasformata in un additivo che accresce l’attrattiva dei cibi e gli esperti hanno creato anche esaltatori di sapidità che amplificano la dolcezza dello zucchero fino a duecento volte la sua capacità naturale. Zucchero che non si limita ad addolcire ma sostituisce spesso ingredienti più costosi, come i pomodori nel ketchup, oltre ad aggiungere volume e consistenza al prodotto finale. Qualcuno si è pure pentito. Come Robert I- San Lin , ex scienziato capo presso Frito Lay, «molto turbato dalla esperienza di ciò che il denaro può comprare negli Stati Uniti: “Tutto è in vendita, se avete abbastanza soldi”».
Investire nella ricerca. La scienza venduta alla grande industria? Non del tutto, secondo Moss, però è inquietante scoprire come la scienza della nutrizione, negli Stati Uniti come in altri Paesi occidentali, sia finanziata dall’industria alimentare, e come sia facile manipolare i risultati della ricerca per seppellire le cattive notizie quando si controlla il finanziamento. Altrettanto inquietante è scoprire come alcuni dei più grandi produttori alimentari del mondo, negli ultimi anni, abbiano condotto proprie ricerche sul cervello per valutare l’intensità del potere di attrazione dei grassi: la sola Unilever ha investito 30 milioni di dollari in un’équipe di 20 ricercatori per analizzare i poteri sensoriali del cibo, grassi inclusi, attraverso l’utilizzo di risonanze magnetiche del cervello e altri strumenti neurologici avanzati.
Il cervello è il luogo dove si palesa una preoccupante analogia fra alimentazione e droghe. Stupefacenti e cibi ad alto contenuto di sale, zucchero e grassi agiscono infatti in modo molto simile: una volta ingeriti, compiono i medesimi percorsi e usano gli stessi circuiti neurologici per raggiungere le aree cerebrali deputate alla gratificazione, quelle che inducono il cervello a credere che si stia facendo la scelta giusta. Siamo diventati dei tossicodipendenti da cibo, forse? Per Moss, in realtà, il paragone più calzante è con i grandi fumatori che non possono fare a meno del pacchetto di sigarette quotidiano. Un intero capitolo è dedicato alle analogie fra industria alimentare e del tabacco. «Mi ha colpito il ruolo giocato dalla Philip Morris, la più grande multinazionale del tabacco, diventata anche uno dei più grandi produttori di alimenti del mondo attraverso l’acquisto di General Foods e Kraft», spiega. «A partire dal 1999, la sua divisione “food” è stata invitata a ridurre l’input di sale, zuccheri e grassi nei prodotti alimentari per evitare eventuali cause legali dovute all’epidemia di obesità in corso negli Stati Uniti, tipo quelle già affrontate dalla divisione “tabacco” per lo stretto legame fra fumo di sigaretta e cancro. Ciò dimostra che i Big dell’industria alimentare sono coscienti da anni delle loro responsabilità per l’attuale crisi di obesità e ciononostante hanno continuato a produrre cibi con grandi quantitativi di sale, zucchero e grassi pur di mantenere l’alta appetibilità dei loro prodotti».
Moss descrive nel libro diversi trucchi elaborati dall’industria alimentare per vendere cibi pronti e creare dipendenza. «I più subdoli sono quelli che trasmettono una falsa immagine di sana alimentazione per prodotti che in realtà sono “junky”, spazzatura nutrizionale», conferma a Sette. «Per esempio, certe scritte generiche sulla confezione, come “aggiunta di frutta, più calcio, proteine extra, cereali integrali, naturale”. Anche i consumatori intenzionati a nutrirsi meglio cadono nella trappola di questo marketing, senza rendersi conto che molti di questi prodotti sono “caricati” con sale, zucchero e grassi». L’autore punta il dito anche contro un altro pericolo: il trend che spinge la massa di consumatori a comprare cibo low-cost, “schiavi” del prodotto a basso prezzo e di scarsa qualità.
«Siamo a un punto di svolta: abbiamo il potere di fare la spesa con intelligenza, imponendo ai Big dell’industria di immettere sul mercato prodotti più sani. I governi difficilmente agiscono senza una forte pressione pubblica», conclude Moss. «La maggior parte della popolazione non può permettersi di evitare del tutto i super e gli ipermercati, ma può resistere alla commercializzazione selvaggia. Basta limitare l’uso di cibi elaborati, controllare con attenzione le etichette e tornare ai fornelli».
La difesa comincia in casa. Come fa la sua famiglia. «Sia io che mia moglie sappiamo cucinare e lo insegniamo ai nostri figli. Stiamo sostituendo i cibi comprati in negozio con quelli fatti in casa: sughi per la pasta e pizza una volta alla settimana – con farina di grano intero, molte verdure e poco formaggio – e poi minestre, tacos, torta di mele che prepara il nostro Will, 9 anni. Quando siamo veramente di fretta, va bene anche una frittata, un po’ di prosciutto, pane, olive, humus, vino rosso, olio d’oliva, broccoli al vapore o saltati». Niente junk food? «Il mio cibo spazzatura preferito sono le patatine fritte. Compro le migliori in commercio e cerco di non finire in un colpo il pacchetto. Ma a quelle non rinuncio».