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 2014  febbraio 21 Venerdì calendario

QUELLA GRANDEUR FINITA IN MALINCONIA

QUELLA GRANDEUR FINITA IN MALINCONIA–

Dobbiamo salvare la Francia e i francesi. La notizia di qualche giorno fa è che l’anno scorso nell’Esagono sono stati mangiati 970 milioni di hamburger, o di amburghèr se preferite. La società di consulenza alimentare che li ha contati, Gira Conseil, dice che si tratta di quasi la metà di tutti i sandwich venduti nella patria del “croque-monsieur”: nel 2007, se ne consumava uno ogni sette panini. Nonostante che la lingua di un francese si contorca al solo pronunciare hamburger, un boom. Non c’è però niente da ridere. Se sei francese, infatti, più hamburger mangi, più probabilità hai di essere triste e forse depresso. Quasi certamente, sei malinconico. E dal momento che la malinconia è un filo rosso che attraversa la mente dei francesi di tutte le epoche e oggi sembra toccare punti particolarmente alti, la vittoria della polpetta anglosassone – il provocatorio trionfo di McDonald’s – non è insignificante, racconta qualcosa.
Una delle stranezze intriganti degli ultimi tempi è che il Paese della joie de vivre, del bello e del rilassato è profondamente infelice, in Europa il più infelice dopo il Portogallo. Tra le Nazioni ricche, è quella i cui cittadini hanno la probabilità maggiore di soffrire di un episodio depressivo grave nel corso della vita. Ogni giorno in Francia ci sono 21 suicidi tra gli uomini e otto tra le donne, oltre a 700 tentativi falliti: il doppio che in Italia. La storia e la cultura contano. «La malinconia è la felicità di essere triste», scriveva Victor Hugo: e la sua poesia Melancholia è studiata nei licei. La “gioia” è volgare secondo Baudelaire, mentre la malinconia è nobile compagna della bellezza. “Buongiorno tristezza” fece un mito di Françoise Sagan. Poi l’esistenzialismo. E, al fondo di tutto, Voltaire. Sotto l’ottimismo dell’Exposition Universelle e della Belle Époque è insomma sempre corso un filo che conduce all’introspezione. Ma oggi c’è qualcosa di più: la malinconia non solo riemerge in forma acuta ma sembra essere diventata un tedio collettivo, politico.
Questa volta è diverso nel senso che molti francesi si sentono sorpassati dalla storia. L’idea che la Francia sia un’eccezione mondiale sta lasciando il posto alla disillusione e alla fatica di ammettere di essere un Paese normale. Lo storico Christophe Prochasson, direttore dell’École des hautes éstudes en sciences sociales, ha spiegato al quotidiano Le Monde la cosa in questi termini: «Nel 1945, la Francia era dalla parte dei perdenti, ma questa realtà è stata a lungo mascherata dai discorsi politici del generale De Gaulle e di François Mitterrand: ambedue sostennero, a loro modo, l’idea che essa fosse rimasta una grande potenza promessa a un destino eccezionale. Dopo che lasciarono i loro posti, i francesi continuarono a vivere in quella convinzione». Oggi l’illusione via via svanisce e «la Francia è un Paese in lutto». Quel che le manca oggi, dice Prochasson, è «la capacità di contemplare futuri che cantano».

Poche luci, tante ombre. La musica si è fermata. L’inglese, non il francese, ha conquistato il mondo. Difendere l’eccezione culturale di fronte a Hollywood è impresa disperata. La relazione speciale con la Germania doveva produrre un’Europa francese e invece ne ha prodotta una tedesca. La fine dell’impero a Londra è stata digerita e non ha lasciato troppi segni: a Parigi è quasi difficile ammetterla. Persino la cucina, vanto di civiltà e buon vivere, è attaccata al cuore, appunto, dall’hamburger.
Per anni, in parte ancora oggi, la Francia ha vissuto in uno stato di negazione. Culturale e quindi anche economico. Non che il Paese sia nel dramma. I livelli di vita sono ancora alti, i servizi pubblici funzionano meglio che altrove, come i treni veloci e i musei, i ristoranti non sono peggiorati. E negli ultimi due anni, la Borsa è cresciuta di oltre il 30 per cento nonostante il pessimismo sul futuro dell’economia di gran parte degli esperti. Ciò nonostante, è diventato quasi scontato parlare di «Francia malato d’Europa». In effetti, la disoccupazione è sopra al dieci per cento, ai massimi da 16 anni. La crescita economica è stagnante da sette. Il prodotto lordo (Pil) pro capite – un indicatore generico della ricchezza – nel 2001 era il 16% maggiore di quello medio dell’Unione europea, oggi è superiore di solo l’8-9%. Le esportazioni perdono terreno: nel 1999 erano il 60% di quelle tedesche, oggi sono il 40%. La produttività misurata in termini di costo del lavoro per unità di prodotto continua a deteriorarsi. La bilancia delle partite correnti è stata negativa per l’1,9% del Pil nel 2013 e si prevede che lo sarà dell’1,8% nel 2014.
Lo Stato spende il 57% del Pil, una cifra immensa che frena l’attività privata: se si fa cento il gennaio 2008, la spesa pubblica è arrivata a 108 mentre gli investimenti fissi sono scesi a 87. Nonostante la tassazione sia tra le più alte d’Europa, i conti pubblici sono in affanno. Pochi giorni fa, la Cour des Comptes – la Corte dei Conti –, ha detto che il debito pubblico è in “zona pericolo” e toccherà il 95% del Pil quest’anno. E ha aggiunto che l’obiettivo (già rivisto in crescita) di un deficit pubblico al 4,1% nel 2013 ha un “rischio significativo” di non essere rispettato, così come quello del 3,6% nel 2014. In una cornice nella quale Parigi non pareggia i conti pubblici dal 1974. Secondo l’Ocse, «l’economia francese ha un patrimonio straordinario e un potenziale considerevole, ma l’eccessiva regolamentazione e gli alti livelli di tassazione stanno gradualmente erodendo la sua competitività». L’anno scorso gli investimenti diretti in Francia sono crollati del 77%, la caduta più pronunciata tra i Paesi del G20, secondo dati delle Nazioni Unite.
In parallelo al declino di molti simboli della gloria francese del passato, anche il modello economico del Paese è entrato in crisi. Fondato su alte tasse; Stato sociale tra i più generosi del pianeta; protezione sindacale più accentuata al mondo; ruolo pubblico accentuatissimo nell’economia, sia come intervento diretto con aziende pubbliche sia come difesa anche protezionistica di interi settori industriali. In sostanza, un’economia cresciuta, in certe fasi anche con successi notevoli, all’ombra dello Stato. Da qualsiasi parte lo si prenda, però, oggi il modello vacilla. La cosa grave è che una buona parte del Paese ancora se lo nega. Alle elezioni presidenziali della primavera 2012, François Hollande ha vinto promettendo di espandere lo Stato, di abbassare per alcuni lavoratori l’età pensionabile, elevata dal predecessore Nicolas Sarkozy, da 62 a 60 anni, di assumere 60 mila insegnanti, di introdurre una tassa del 75% sui redditi dei più ricchi, di iniziare ad abbassare la disoccupazione entro la fine del 2013.

Altro tradimento. Avendo sollevato enormi aspettative, la caduta a seguito del non avere realizzato le promesse per Hollande è stata tanto più rovinosa: i sondaggi gli danno un gradimento tra il 15 e il 20%, il più basso nella storia della Terza Repubblica. Da qui l’accettazione della realtà e la svolta “liberale” (si fa per dire) del presidente socialista. Nel discorso di fine anno, ha proposto agli imprenditori un “patto di solidarietà”: ha promesso meno tasse sul lavoro e meno burocrazia sull’attività economica in cambio dell’impegno ad assumere. Inoltre, si è impegnato a tagliare più in generale le tasse in parallelo alla spesa pubblica, a creare un clima favorevole agli investimenti e ad accrescere la competitività del Paese. A sottolineare che la svolta non dovrebbe essere di breve periodo ma strutturale, ha aggiunto che serve agire sull’“offerta”, cioè favorire chi produce, come di solito dicono le destre. «Sì, l’offerta», ha esclamato. «Ciò non è in contraddizione con la domanda. L’offerta può persino creare domanda». Elettori francesi scioccati, se hanno prese per buone le nuove promesse del presidente. E, a sottolineare lo stato di negazione ancora potente, la sinistra ha lanciato a Hollande accuse che vanno dal reato di “svolta ideologica” a quello di “tradimento”.

La fine del sogno. Tra un hamburger e un antidepressivo, tra l’incertezza del futuro e la nostalgia del passato, i francesi andranno dunque a votare a fine maggio per le elezioni europee e faranno probabilmente vincere il Front National di Marine Le Pen, estrema destra xenofoba. I sondaggi dicono che potrebbe raccogliere fino al 35% dei voti, finire primo partito dell’Esagono e dare il segno a tutta l’Europa che il vento sta cambiano e che la Ue rischia di essere colpita in pieno dalla bufera. Il Paese che si è sempre considerato, dalla fine della Seconda guerra mondiale, il motore dell’unione continentale e la fucina dell’europeismo oggi dice, al 77%, che l’integrazione ha indebolito l’economia e solo al 41% di avere un’opinione favorevole della Ue, addirittura meno dei britannici (43%). Un sondaggio di YouGov dice che un francese su tre vorrebbe uscire adesso dall’Unione europea.
Anche parti delle élite, da 70 anni plasmate dall’europeismo e cementate da carriere cresciute all’ombra della bandiera blu con le 12 stelle, iniziano a decostruire l’idea europeista, dicono che la Ue e l’euro non hanno basi sufficienti. François Heisbourg, consigliere speciale del presidente della Fondation pour la recherche stratégique, ha scritto un libro - La fin du rêve européen, la fine del sogno europeo – nel quale sostiene che l’euro non può vivere senza unione politica europea, ma dal momento che l’unione politica non è realisticamente fattibile è meglio disfarlo ordinatamente e passare alla ricostruzione di una nuova Ue.
In questo clima, se le elezioni per il Parlamento di Strasburgo dovessero veramente dare una vittoria significativa a Marine Le Pen, i due centri della politica francese, il socialista e il conservatore-gollista, ne uscirebbero frastornati. In casa, faccende come l’immigrazione e le stesse riforme economiche prospettate da Hollande diventerebbero terreno di duro scontro. Le conseguenze in Europa di una Francia in diniego anche del suo passato europeista sarebbero imprevedibili. Attenzione dunque: Jean Cocteau diceva che «i francesi sono degli italiani di cattivo umore»; ma, oggi, a ogni morso di amburghèr sono anche un po’ più, pericolosamente, malinconici.
@danilotaino