Roberto Cotroneo, Sette 21/2/2014, 21 febbraio 2014
SELFIE, SPLENDIDA OSSESSIONE QUASI PATOLOGICA
Nel novembre del 2000 la Sharp, azienda giapponese di prodotti elettronici, mette sul mercato il primo telefono cellulare con inclusa una fotocamera. È una cosa che oggi farebbe sorridere. La risoluzione era di 0,1 megapixel, e il cellulare costava ben 500 dollari di allora. Fu l’inizio dell’era della fotografia totale. Ovvero da quel momento in poi il fotografare non è più una scelta. Non si tratta di decidere di portarsi dietro uno strumento che ferma la realtà in immagini. Ma scattare è sempre possibile, e si è tutti dei fotoreporter in servizio permanente effettivo. Da quel lontano 2000 è passato molto tempo, un’era geologica. Le fotocamere sono diventate più sofisticate, più definite, scattare con il cellulare era sempre più soddisfacente. Ma per dieci anni, fino al 7 giugno del 2010, la sostanza non è cambiata di molto. Potevi fotografare facilmente ma era piuttosto faticoso fotografarsi. Quel 7 giugno Steve Jobs, presenta il nuovo modello di iPhone, il 4. E per la prima volta ci sono due videocamere. Una frontale e una posteriore. Quella frontale serve per le videochiamate. Quella posteriore per tutto il resto.
Nessuno può immaginare ancora che le videochiamate saranno poca cosa. E che la camera frontale sarà molto usata in futuro. Per fare il selfie, come lo chiamano: ovvero lo scattarsi fotografie da soli. Va detto subito che il selfie non è un autoscatto. E non bisogna confondere le due cose. L’autoscatto è un modo per far funzionare la macchina da sola. Devi inquadrare senza il soggetto, dare un tempo di attesa, correre verso il punto di inquadratura e lasciare che la macchina scatti la foto. Non ti vedi mentre lei scatta, non puoi cambiare espressione, non metti il tuo corpo in diretta decidendo come muoverlo, non puoi valutare quale sarà il tuo sorriso e il tuo sguardo.
SEGNALI CONTINUI. Tutto questo il selfie lo può fare. Ti specchi, e trasformi quell’immagine riflessa in una fotografia. In tre anni il selfie, complici i social network che esasperano questa tendenza, sta diventando un’ossessione al limite della patologia. Ed è esattamente il contrappasso dell’assenza del corpo nella nuova socialità di Facebook o di Twitter. Per intenderci: più scrivo, più faccio amicizie senza esserci fisicamente, e più il mio corpo deve prendersi una rivincita, deve esserci, in tutte le sue espressioni, nella sua assoluta quotidianità: quando ci si sveglia la mattina, alla cena con gli amici, alla festa a tarda sera, nella pausa di lavoro. Voglio dare segnali continui che esisto fisicamente, attraverso un mezzo illusorio come la fotografia. Roland Barthes, nella Camera chiara, scriveva: «Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente... è il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, spenta e come ottusa, il Tale, in breve la Tyché, l’Occasione, l’Incontro, il Reale nella sua espressione infaticabile». Ma ormai siamo a un capovolgimento. La fotografia non è più la testimonianza di quanto avvenuto una sola volta. Ma è la registrazione di quanto avviene di continuo. Non ferma nulla, ma insegue una realtà, una vita che non è occasione, incontro o Tyché, destino. E il paradosso è un altro: è proprio quello che non si fotografa, è la vita fuori dal selfie a farsi unica e inafferrabile, realtà vera e destino. Se un tempo si fotografavano gli eventi perché potesse restare qualcosa, oggi è quando si spegne la fotocamera del proprio telefono che accadono le cose importanti, avvengono le cose che restano. Tocca alla memoria e ai sentimenti riprendersi quello che Barthes chiamava il Reale. In questo mondo di selfie, di istanti ripetuti, di corpi che cambiano di continuo, la fotografia non immortala, e dunque non ci rende immortali. Non ferma niente. Asseconda il tempo che fugge illudendosi di fermarlo in tutti gli istanti possibili.