Aldo Grasso, Corriere della Sera 21/2/2014, 21 febbraio 2014
BELLEZZA ITALIANA E MEDIOCRITÀ DIFFUSA
Sanremo Settebellezze. Se all’Ariston sento ancora parlare di bellezza metto mano alla pistola. Ah, i danni involontari, il fuoco amico de La grande bellezza (che poi, a ben vedere, il titolo giusto sarebbe stato Il grande autocompiacimento ), l’idea che basti la parola, come il famoso lassativo.
A un programma televisivo si chiede di essere bello (a cominciare dalla scenografia), non di parlare di bellezza perché ormai il vocabolo è logorato, a furia di usarlo a sproposito è diventato una vuota carcassa, non significa più nulla. In questi anni, la Bellezza è passata dall’estetica all’estetismo, dall’anima al corpo (specie nei concorsi di bellezza), dalla passione alla compassione («bella dentro»). L’unica cosa che sappiamo con certezza sulla bellezza è che non esiste una ricetta per produrla o una scritta per indicarla.
La Bellezza con cui noi siamo costretti ogni giorno a confrontarci è quella creata dai media, altrimenti detta «moda». Oggi è bello questo, domani quello. Avevano già capito tutto le streghe nel primo atto del Macbeth quando gridano: «Il bello è brutto e il brutto è bello…».
Noi autori di Sanremo, invece, siamo Buoni e Belli, siamo noi il modello cui dovreste aspirare; per questo i monologhi sanremesi sulla bellezza hanno un incedere imbarazzante, come se la Bellezza fosse un valore assoluto e atemporale.
Forse dovremmo fare un piccolo esame di coscienza: ma esiste ancora la tanto decantata bellezza italiana? Non dovremmo per caso cominciare a fare i conti con una mediocrità diffusa, che ci vede tutti coinvolti in un costante degrado del gusto, nessuno escluso?
Come sosteneva Simone Weil, c’è tanta bellezza persino nella politica, nei gesti quotidiani, nei paesaggi, nell’architettura, ovviamente nell’arte e nella conservazione dell’arte. Basta saperla cogliere perché, è noto, la bellezza non sale su un palco ma è negli occhi di chi guarda.