Massimo Gaggi, Corriere della Sera 21/2/2014, 21 febbraio 2014
LIDIA BASTIANICH – [«DOPO POLA RESTAMMO DUE ANNI ALLA RISIERA DI SAN SABBA. L’AMERICA? UNA FESTA, MA NON PER MIO PADRE: È MORTO TRISTE»]
«Sono passati più di vent’anni ma lo ricordo come fosse oggi. Ero seduta a quel tavolo lì con un cliente. Entra Joe, torna dal lavoro prima del solito. “Mamma mi sono licenziato, Wall Street non è per me. Adesso sto per un po’ qui”. Mi si strinse il cuore. Ma come, mi dissi, dopo tutti i sacrifici per farlo studiare, il Boston College, me lo ritrovo a ciondolare nel ristorante? Temevo che, mollato il posto di “trader” alla Merrill Lynch, si lasciasse andare. Perché il cattivo che vedete in “Masterchef”, nella vita quella cattiveria non ce l’ha: è soffice dentro. Ma è anche determinato, sa sempre cosa vuole, decide rapidamente. Ha assorbito nel suo carattere la grinta di noi esuli istriani e il pragmatismo che abbiamo imparato qui, in America. E infatti Joe si è rimesso subito a studiare, a esplorare. E si è inventato un nuovo “business” nella ristorazione».
Le radici strappate
La grinta e la dolcezza della cucina italiana. I sapori come chiave del successo, catalizzatori di una vita nomade: Pola, la fuga dalla Jugoslavia di Tito, l’Italia che ti accetta ma non ti accoglie. Il periodo in un ex campo di detenzione nazista e poi l’avventura al di là dell’Atlantico: entusiasmo ma anche fatica e pena per le radici strappate, prima di arrivare al successo. Lidia Bastianich misura con lo sguardo il tavolo, carezza la tovaglia candida mentre racconta la sua vita nella penombra pomeridiana in un angolo di “Felidia”, il tempio del cibo della 57esima strada di Manhattan dal quale guida il suo impero della ristorazione: sette ristoranti da New York a Kansas City passando per il Friuli, le trasmissioni televisive nelle quali ha insegnato a cucinare a decine di milioni di americani, i libri, le linee di paste e di sughi col marchio di Lidia vendute nei supermercati, le gare in tv tra cuochi.
«È cucina-spettacolo con tutte le sue esagerazioni, certo — sorride Lidia — ma ci sono dentro quei valori assoluti — passione per qualcosa e voglia di primeggiare — sui quali abbiamo costruito il nostro successo: è la lezione che abbiamo imparato qui in America, dove siamo arrivati dall’Italia senza nulla». Una lezione che trasmette a figli e nipoti e che cerca di far filtrare anche quando va nelle scuole, come pochi giorni fa nel Bronx dove è andata a portare un po’ di cultura italiana a 300 alunni delle elementari. O nella trasmissione che inizierà tra qualche settimana in Italia, “Junior Masterchef” su Sky1: «Cuochi ragazzini, ma vedesse che bravura e che determinazione!»
Lidia ha più volte smontato e ricostruito la sua vita, sempre attorno a un rettangolo di legno: la tavola come àncora di un’esistenza vissuta al galoppo tra l’inebriante sapore del successo e il dolore degli affetti perduti. «Degli anni dell’infanzia a Pola ricordo soprattutto i momenti di gioia che erano quelli delle riunioni familiari attorno a un tavolo. Poi la fuga da un Paese che non ci voleva più, ma anche a Trieste fu dura. Per un po’ fummo ospiti di una zia, cercando di ricostruire la nostra vita attorno alla sua tavola. Ma non c’era lavoro, non potevamo restare. Chiedemmo asilo in America come profughi. Ce ne andammo alla Risiera di San Sabba, un ex campo di concentramento. I due anni più duri. Ancora davanti ai miei occhi. Tutti in fila per la razione quotidiana: prosciutto cotto, un formaggino, una mela. E anche lì la tavola — i lunghi tavoli della mensa — come unico luogo di socializzazione. Il luogo del calore e dei sorrisi: davanti a quel cibo, povero ma benedetto».
Poi lo sbarco in America: «C’era lavoro per i grandi e per noi ragazzini era un mondo nuovo, affascinante: una festa. Ma per papà e mamma no: a volte la sera li sentivamo piangere sommessamente. Mia madre, Erminia, alla fine si è ambientata. Mio padre mai: è morto triste. Noi figli ci siamo dati da fare soprattutto per convincerli che avevano fatto la scelta giusta, venendo in America. Che qui saremmo riusciti a costruire qualcosa».
La separazione
A 14 anni Lidia Matticchio già lavora per un fornaio di Astoria, il padre di Christopher Walken. Poi va a lavorare in un ristorante italiano. A 16 anni incontra un altro emigrato dall’Istria, Felice Bastianich, che diventerà suo marito. Felice e Lidia, “Felidia”. Un lungo sodalizio, due figli, finito in separazione: un uomo buono ma senza la grinta, la determinazione della moglie. «Ci è rimasto vicino» racconta ancora Lidia, «ma non condivideva il mio accanimento, la dedizione totale al lavoro. Non era un uomo duro, aveva un temperamento artistico, suonava la fisarmonica. Qui non stava bene, volle rientrare in Istria. Ma anche lì non aveva più radici. È tornato a New York, veniva sempre a trovarci nei giorni di festa, fino a quando è morto, due anni fa».
Già, i giorni di festa: quelli in cui l’impero Bastianich torna a essere famiglia con Lidia che riunisce figli e nipoti nella casa di Little Neck Bay a Long Island. La grande cucina che durante la settimana si trasforma in studio televisivo, la sala da pranzo dove si mangia e si coltiva il senso di appartenenza. E, nel retro, l’orto curato da nonna Erminia che a 93 anni, racconta Lidia, «esce a piantare il radicchio zuccherino e a legare le piante di pomodori». Cucina gli stessi piatti che offre ai clienti dei suoi ristoranti? «Gli ingredienti vengono dal nostro orto, ma la filosofia è quella: ingredienti semplici, di stagione, un tocco di personalità con le spezie giuste, ma senza la pretesa di inventare chissà cosa».
Il complimento più bello
Il complimento più bello ricevuto? «Da papa Benedetto XVI. Quando venne a New York, mi chiamarono: “Dovrai cucinare per lui”. Ero emozionatissima. Corsi a dirlo a mia madre. Rispose: “Il pontefice? Bene. E poi per chi altro cucini?” Preparai crauti, spätzle e strudel, specialità con le quali ho preso confidenza nei viaggi gastronomici su è giù per l’Italia, dalla cucina siciliana a quella tirolese. È la varietà, la ricchezza dell’Italia. Ed è stata la chiave del mio successo qui in America. Funzionò anche con papa Ratzinger: non esclamò “che buono” ma mangiò tutto e alla fine mi disse che aveva risentito i sapori della cucina di sua madre che, mi rivelò, era una gran cuoca. Ma io lo sapevo, mi ero documentata. Ed erano proprio quei sapori che volevo evocare».
Niente cucina molecolare da queste parti... «No, no, innovare un po’ va bene, ma le invenzioni forzate, no: io non maciullo un pesce per trasformarlo in schiuma. Se punti tutto sull’invenzione il cliente pretende cose sempre radicalmente nuove, lo devi stupire: una corsa senza fine».