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 2014  febbraio 16 Domenica calendario

ROBERTO SAVIANO: «MI SONO ROVINATO LA VITA»

Il sogno di qualunque giovane giornalista di razza dovrebbe assomigliare al profilo di Roberto Saviano: sguardo limpido, fiuto per scovare le storie, abilità e simpatia per trattare con le fonti e un penna capace di trasformare ogni reportage in buona letteratura. Se poi ad appena 26 anni si riesce a scrivere un libro come Gomorra, che ha venduto più di dieci milioni di copie in tutto il mondo, il sogno sembrerebbe completo.
Almeno fino a quando si legge la dedica della sua ultima opera, zerozerozero, un viaggio di quasi 500 pagine attraverso il traffico della cocaina da un lato all’altro dell’Atlantico, che in Spagna esce la settimana prossima per la casa editrice anagrama: "Dedico questo libro a tutti i carabinieri della mia scorta. Alle 38mila ore che abbiamo trascorso insieme. E a tutte quelle che ancora dobbiamo trascorrere. Dovunque sia".
Questa conversazione con Roberto Saviano è avvenuta nei sotterranei di un hotel di Roma. Ovviamente sotto la sorveglianza vigile dei suoi guardaspalle.

La camorra ha emesso una condanna a morte contro di lei, obbligandola a vivere nascosto , perché ha continuato a scrivere sempre degli stessi argomenti?
«Mi piacerebbe rispondere con una frase eroica del tipo: continuo a scrivere perché credo nella verità, perché non sono riusciti a intimorirmi, però mi sentirei un po’ ridicolo visto che dentro di me so che non è vero. O meglio, la risposta autentica è un’altra: sono ossessionato. Sono ossessionato perché una volta che mi sono trovato di fronte alla storia delle mafie non sono riuscito, anche fisicamente, a evitare di seguirla. Sapevo che se avessi continuato a scrivere la mia vita sarebbe peggiorata. Non solo per la questione delle minacce,
ma anche perché la maggior parte delle persone citate nel libro mi avrebbero querelato per diffamazione. Però la tentazione è più forte di me. È una specie di dipendenza. Una mania. Non è soltanto il ragionamento puro: "è giusto lottare per la verità". Perché sono del tutto convinto che...»
Che è stato un errore?
«Diciamo le cose come stanno: io non credo che sia nobile aver distrutto la propria vita e quella delle persone che mi stanno intorno per cercare
la verità. Vista da fuori può sembrare una cosa coraggiosa: ah che cosa bella. Però, io che l’ho fatto, non sento che sia nobile. Inoltre dico a me stesso: qualche volta avrei potuto fare le stesse cose, con lo stesso impegno, lo stesso coraggio, ma con prudenza, senza distruggere tutto. sono stato impulsivo, ambizioso e mi sono rovinato la vita».
Addirittura?
«Consideri che non posso disporre della mia vita senza chiedere l’autorizzazione. Non posso uscire quando voglio, non posso tornare quando voglio. E nemmeno frequentare le persone che amo senza doverle nascondere affinché non subiscano ritorsioni. A volte mi chiedo se un giorno non finirò in un ospedale psichiatrico. Parlo sul serio. Già adesso devo ricorrere agli psicofarmaci per andare avanti e non mi era mai successo prima. Non ne abuso, però ogni tanto mi servono. E questa cosa non mi piace affatto, spero che un giorno finisca».
È valsa la pena pagare un prezzo così alto?
«No. So che quando lo dico qualcuno può pensare: che vigliacco. Vale la pena cercare la verità e vale la pena scavare fino in fondo, però proteggendosi. Il mio dramma interiore è: avrei potuto fare tutto questo senza mettere a rischio qualsiasi aspetto della mia vita. Perché sa qual è il problema? Se tu anteponi un obiettivo, la verità, la denuncia, a qualunque altro aspetto della tua esistenza diventi un mostro. Un mostro. Perché tutte le tue relazioni umane e professionali sono finalizzate a ottenere la verità. Delle volte il fine può essere nobile, una cosa generosa. Ma la tua vita non diventa generosa. Le relazioni si trasformano in qualcosa di terribile».
Perché?
«Perché a quel punto hai deciso di sacrificare tutto sull’altare della verità. Quando ho cominciato non me ne sono reso conto. E nel libro lo dico: non vale mai la pena di rinunciare alla propria felicità per un obiettivo che si considera superiore. Vale la pena fare le cose giuste, però difendendosi».
Hai deciso di tornare indietro? Di scrivere di altro?
«È difficile. Ci proverò. Il problema è che quando sei arrivato a questo livello di notorietà, se torni indietro rischi di perdere quello che hai fatto. E qui esce fuori l’ambizione: come faccio a buttare in mare tutto questo lavoro, tutto quello che ho ottenuto? Poi spunta un altro dilemma: questa situazione mi rende prigioniero, però a volte dà senso alla mia vita. Dall’altro lato sento di non essere solo uno scrittore di crimine. Voglio fare letteratura».
In Zerozerozero lei ci è riuscito
«Sì, credo di sì, il mio obiettivo è di scrivere di cose reali con uno stile letterario. È stato difficile, perché quando da qui si parla di America Latina si tende a vedere solo gli aspetti di sangue, i massacri, come se tutto fosse una grande caos. Io al contrario ho provato a descrivere l’ordine messicano, non il disordine. La scientificità del tema. Non è stato facile».
Quali somiglianza ci sono tra il crimine organizzato italiano e quello messicano?
«Molte. Più che tra Italia e Colombia. Perché la struttura, la gestione del territorio, è molto simile. Per questo ho cominciato il libro con una lezione del boss italiano ai latinos di New York. In sostanza li avverte: se volete il potere dovete sapere che un giorno la pagherete. Se avete pensato che potete ostentare il potere e poi uscirne vi siete sbagliati. Questa è la filosofia dell’infelicità che è alla base di tutte le organizzazioni».
Proprio a causa del libro lei è tornato a Napoli dopo molti anni. Quali sensazioni ha provato?
«All’inizio ho avuto paura. Ho provato a inventare qualsiasi scusa per andarmene. Non volevo dare fastidio alla città, alle persone. Temevo che avrebbero detto basta. Invece ho incontrato migliaia di giovani felici di salutarmi, persone che volevano toccarmi e accarezzarmi, che mi prendevano la mano dicendomi: "Tranquillo, stai qui". È stato emozionante, fino a quel giorno ero tornato solo per andare in tribunale».
Come ha trovato la sua città?
«Peggiore. La crisi l’ha ferita ulteriormente. Il sogno napoletano continua a essere sopravvivere ed emigrare».

Tutte le parole di Saviano, persino le più drammatiche sulla sulla sua vita, sono state pronunciate con un sorriso sulle labbra.
(traduzione di Francesco Olivo)