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 2014  febbraio 21 Venerdì calendario

DALL’UNIONE DI PRODI AI PRANZI DI SILVIO ORA ANCHE RENZI FA I CONTI CON I CESPUGLI


AI TEMPI di Mastella, che quando voleva sapeva anche essere signore, a un certo punto le porte della stanza in cui si svolgeva il vertice si aprivano e alcuni muti inservienti servivano ai numerosi convitati fresche mozzarelle di Battipaglia.
E anche piattini, forchettine e tovagliolini che immediatamente guadagnavano spazio a scapito di rassegne stampa, bloc notes e telefonini sul fatidico «tavolo», come si diceva con qualche eufemismo; attorno al quale, estenuati com’erano dalle più accese discussioni su qualche riforma elettorale a doppio o triplo scorporo, i partecipanti s’apprestavano al fiero pasto. Vennero poi, aprile 2000, tra il dicastero D’Alema e quello Amato, pure colombe pasquali e fragoloni di sospetta derivazione transgenica.
Ai tempi Prodi, qualche anno dopo, fu scelta addirittura la Reggia di Caserta per riunire e rafforzare la maggioranza. Anche in quel caso si registrarono innumerevoli presenze. Il clima un po’ da gita scolastica spinse i rappresentanti di una dozzina di partiti a visitare con il presidente e il suo ministro degli Esteri non solo le bellezze, ma pure le curiosità del luogo, tra cui i bidet dei Borboni che negli inventari degli inesperti conquistatori piemontesi vennero più tardi rubricati come «oggetti in forma di chitarra di cui non si conosce l’utilizzo ».
Anche lì ovviamente mozzarelle, come coazione a ripetere, con autisti che se le caricavano negli ampi portabagagli delle berline ministeriali. Anche lì porte chiuse e giornalisti in fregola. Sennonché, su di un Suv nero, venne anche Pannella che entrò in sala, compose il numero di Radio radicale e mise il telefonino acceso sotto il naso di Prodi. Per ben 29 minuti la voce gracchiante del premier risuonò nell’aere, e quando si venne a sapere era troppo tardi, ma proprio per questo Di Pietro la prese malissimo.
Ah i vertici, i vertici... evidentemente non c’è proclamata allergia o istintiva idiosincrasia che riesca a farne a meno. Difficile dire cosa abbia spinto il povero Delrio ad accettare di convocarne uno con un tale densità di invitati e auto-invitati, fra cui diversi in funzione di pedinamento intestino, che tuttora non si riesce a saperne il numero oscillante, nonché intermittente, fra i 15 e i 25.
In compenso i partiti rappresentati erano nove. Oltre al Pd e all’Ncd, Scelta Civica, i Popolari per l’Italia, l’Udc, il Centro Democratico, il Psi, le Autonomie e un’altra entità, a nome Maie, che ha a che fare con gli italiani all’estero, ma che risulta ancora più misteriosa in quanto coincide l’Api di Rutelli, che qualche sbadato riteneva sciolta, o chiusa, o superata.
Ora, la gremitissima rimpatriata pare poco in linea con lo Sturm und Drang renziano. E tuttavia la verticiade o verticeide che sia non è roba da prima Repubblica, essendo semmai fiorita, cresciuta e prosperata nell’ultimo ventennio, figlia com’è dello sfaldamento dei partiti, della proliferazione delle tribù e un po’ anche, si capisce, dei crescenti appetiti - a mostrare i quali i loro più o meno legittimi rappresentanti non hanno più tanto pudore.
E comunque ieri, anche per non sfidare la divinità che sovrintende alla rottamazione, i fotografi e le telecamere non sono potuti entrare nella sala ministeriale dove si è svolto il vertice della pari, stipata e nebulizzatissima dignità. E se pure l’occasione, pretesa dal prode Alfano, aveva il duplice scopo di prendere un giorno e dare un contentino ai nanetti, il semplice fatto che il vertice si sia tenuto conferma l’ineluttabilità dell’evento.
Chiederne conferma a Berlusconi. Quando era ancora in Finivest, la sua pedagogia aziendale prevedeva la convocazione di riunioni da tenersi in piedi, convocate cioè in sale prive di sedie, per evitare inutili perdite di tempo ed energia. Ma poi, già nei primi mesi del governo, quando ancora la sua residenza romana era in via dell’Anima, il Cavaliere si rese conto che a casa quasi tutti i giorni gli piombavano, specie all’ora di pranzo, dai venti ai trenta convitati. Tra i quali, sembra di ricordare, anche un signore, anzi un professore del Cdu con la barba, tutto vestito di nero e sempre con l’ombrello che aveva anticipato l’invenzione del Pdl e che nei suoi piani si proclamava «Il Fiduciario».
Per un ventennio Berlusconi ha tal punto tribolato con questi vertici da averci fatto l’abitudine, se non ci aveva preso gusto. A Palazzo Grazioli il cuoco Michele si dava parecchio da fare; ogni tanto sulla soglia poteva affacciarsi Apicella; una volta, dinanzi a un’accolita di Responsabili, che certo erano raccogliticci, ma molto simpatici, fu improvvisato un coretto che riadattava le parole di «Se mi lasci non vale» di Julio Iglesias, sempiterno cavallo di battaglia del repertorio canzonettistico berlusconiano, alla vicenda della casa di Montecarlo.
E vabbè. Di vertici, comunque, non è mai morto nessuno. La loro sostanziale incapacità di nuocere è strettamente, ma inconfessabilmente connessa con l’ambiguità dell’esito che ogni volta determinano: l’intesa c’è, ma la maggioranza rischia. Comunque un passo avanti. Avanti, del resto, c’è posto, ma forse no.