Luigi Galella, Il Fatto Quotidiano 21/2/2014, 21 febbraio 2014
FAZIO NON È EISENHEIM GLI MANCA L’ILLUSIONISMO
The Illusionist è una pellicola del 2006 di Neil Burger, con Jessica Biel e Edward Norton, in onda mercoledì su Rete 4. La trama: un certo Eisenheim svolge con grande successo l’attività di illusionista, nella Vienna di fine Ottocento. Dopo quindici anni ritrova fra il pubblico la duchessa Sophie, conosciuta e amata da ragazzo, ora promessa sposa del principe Leopoldo, e se ne innamora di nuovo, suscitando la reazione del nobile. Inizia un giallo con dei colpi di scena a effetto, che trova una felice soluzione per i due amanti e per lo stesso imperatore, che l’ambizioso erede intendeva spodestare.
Del film, per quanto godibile, non varrebbe la pena parlare, ma di ciò che evoca sì. Del protagonista storico cui si ispira, ad esempio: Erik Jan Hanussen, ebreo, coetaneo di Adof Hitler, divenuto celebre nella Germania degli anni Venti, capace di sedurre e spaventare il pubblico col suo magnetismo. Ne parlano pochi storici, e tra questi Mel Gordon (Il mago di Hitler, Mondadori, 2004). Sul quotidiano “Berliner Wochenschau”, di cui era divenuto proprietario grazie agli enormi successi teatrali, predisse il successo elettorale del futuro Fuhrer, cui aveva insegnato a modellare la voce e a gesticolare. Hitler apprese da Hanussen che “non è il contenuto di una frase a fare effetto sul pubblico, ma il modo con cui essa viene pronunciata. È il tremare o il tuonare della voce dell’oratore a toccare le corde del cuore umano”. Straordinariamente, prima dell’avvento della tv e dell’era dell’immagine. Fu ucciso dagli stessi gerarchi nazisti, che lo detestavano. Fra gli altri, commise un errore imperdonabile: in un’intervista a un quotidiano statunitense si lasciò scappare che Hitler era sì un buon direttore d’orchestra, ma lo spartito glielo aveva scritto lui. Morirà di lì a poco, nel 1933. Per tornare al film, Eisenheim fa tornare magicamente dall’aldilà degli ectoplasmi nei suoi spettacoli, che la tecnologia oggi saprebbe rendere possibile, ma che tale non era allora. Evocare il passato, con la volontà di restituirlo nel presente, inevitabilmente fa venire in mente ciò che accadeva all’Ariston, a Sanremo, dove già dalle prime battute nella seconda serata del Festival abbiamo visto vecchie glorie degli anni 60, come le gemelle Kessler. Che nell’esibirsi tuttavia, per quanto dignitosamente, non potevano non denunciare il tempo trascorso. Allo stesso modo, Claudio Baglioni, la presentazione della fiction sul maestro Manzi di “Non è mai troppo tardi”, e il Lennon di “Across the Universe” attraverso Rufus Wainwright, e la Franca Valeri della Sora Cecioni. Una struggente parata del tempo perduto. E abbiamo pensato che li vorremmo quegli anni, è vero, ma esattamente com’erano. Un gioco da illusionisti: ecco la vera idea mancante a questo Festival, che torna al passato, e lo rimesta e lo contempla, nostalgico e compiaciuto. Ma non ha il potere, letteralmente, di restituircelo. E invece se passato dev’essere passato sia – infantilmente, follemente – esattamente com’era. Se Fazio fosse Eisenheim e con la mano materializzasse sul palco non il Baglioni di oggi, ma quello di ieri; se fosse un teatrante, capace di resuscitare i morti, anche solo illusoriamente, lo ringrazieremmo. Ma il passato, purtroppo, quello che mostra le rughe, anziché rivivere, si cancella.