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 2014  febbraio 21 Venerdì calendario

FRATELLO MUSULMANO DOVE SEI?


Il Cairo. La palazzina in stile coloniale dove, il 30 giugno del 2012, Mohammed Morsi venne proclamato presidente, prima ancora che i risultati delle elezioni venissero ufficialmente confermati, sembra un rudere su cui è passata un’orda barbarica. La facciata è annerita dalle fiamme delle Molotov. Porte e finestre sono state sfondate e tra i mattoni antichi delle veranda sono cresciute le erbacce. Davanti al cancelletto, scardinato, sosta un carro armato. Ma i soldati hanno l’aria rilassata di chi sta compiendo un’inutile corvée. Non c’è più niente da proteggere, o da sorvegliare, dopo che il quartiere generale dei Fratelli Musulmani è stato completamente saccheggiato e i suoi componenti perseguiti, o imprigionati.
Nulla descrive meglio di questo luogo la parabola del movimento islamista che la rivoluzione egiziana ha proiettato al vertice del potere, dopo un’esistenza quasi interamente trascorsa nella clandestinità e nella repressione, e il colpo di mano dei militari sancito dall’arresto di Morsi, il 1 Luglio del 2013, ha ricacciato nei sotterranei dell’illegalità.
Nel giorno del trionfo elettorale, tutto qui emanava quell’atmosfera al tempo stesso incerta e promettente di una nuova stagione politica in divenire. Le poltroncine della sala stampa erano ancora avvolte nella plastica. I computer stentavano a mettersi in moto. E alcune giovani funzionarie velate, dotate di ottimo inglese, si preoccupavano di apparire rassicuranti, spiegando come da tempo la Fratellanza, fondata nel 1928, avesse scelto la democrazia, il pluralismo e la parità dei generi. Anche se, certo, il Corano e la Umma, la comunità islamica, restavano i pilastri dell’individuo, della famiglia, della società e dello Stato, come aveva predicato Hassan al Banna, il fondatore.
Un anno e mezzo dopo, i Fratelli Musulmani egiziani sono al bando, ma non allo sbando.
Messi alla prova dell’azione di governo, in un Paese strangolato dalla crisi economica e assetato di libertà e di giustizia sociale, hanno rivelato limiti gravissimi; incapacità di dialogare; tendenze autoritarie; e quando una parte sempre più grande della popolazione ha chiesto loro conto dei molti errori, non hanno saputo fare altro che chiudersi nelle loro dogmatiche certezze, adoperando l’argomento dell’indubbio consenso elettorale ricevuto come scudo ad ogni critica.
Sicuramente, mentre erano al potere, i Fratelli non hanno violato l’impegno alla non violenza solennemente preso nel 1949 e mantenuto anche quando pezzi del movimento si sono staccati dalla casa madre per imbracciare le armi, puntualmente contestando alla Fratellanza di aver tradito il pensiero di uno dei suoi pensatori più radicali, quel Sayyd Qutb cui si fanno risalire le radici ideologiche della Jamaa Islamia e di al Qaeda.
Ma davanti al diktat imposto dall’esercito a Morsi (o ti dimetti o ti dimettiamo), seguito all’arresto del presidente eletto, il movimento ha deciso di accettare la sfida a suon di «manifestazioni pacifiche » e atti di disobbedienza, inclusa l’occupazione ad oltranza di piazze e strade che sono puntualmente sfociate in gravi incidenti. Il culmine del braccio di ferro è stato toccato 16 agosto, quando più di 600 dimostranti, la propaganda islamista sostiene più di mille, vennero uccisi dalle forze dell’ordine nel tentativo di sgombe rare strade, piazze e moschee.
Da quel momento, lo scontro non ha conosciuto tregua. Anzi si va aggravando ogni giorno di più dopo l’irruzione sulla scena del terrorismo, con tutte le sue carica di violenza ragionata e, al tempo stesso, di ambiguità. La sigla più ricorrente è quella del gruppo Ansar Beit al Maqdis, i sostenitori di Gerusalemme, che si dice legato ad Al Qaeda e di base in quel Far West senza legge che è diventata la penisola del Sinai.
Sotto la regia del nuovo uomo forte dell’Egitto, il capo dell’esercito e futuro presidente, maresciallo di campo, Abdel Fattah al Sisi, («il serial killer», secondo la propaganda dei Fratelli musulmani) il governo provvisorio ha risposto alla mobilitazione permanente del movimento islamista con una campagna repressiva che, dicono al Cairo, «non s’era mai vista neanche ai tempi di Mubarak». Neanche all’apice del suo dominio, infatti, Mubarak aveva osato fare arrestare il capo dei Fratelli Musulmani.
Invece, lo scorso 20 Agosto, le forze speciali del Ministero dell’Interno hanno bussato alla porta di Mohammed Badie, l’ottava Guida generale del movimento islamista, per portarselo via. Tre giorni prima, il figlio maggiore di Badie, Ammar, era stato ucciso da un colpo di arma da fuoco durante i gravi incidenti esplosi alla Moschea Rabaa al Adawieh e in altre zone del Cairo.
Ma non è tutto. Uno dopo l’altro, tutti gli uomini del vertice della Fratellanza hanno dovuto raggiungere Badie nella sezione di massima sicurezza della sinistra prigione di Tora, sul lungofiume. Tutti tranne Morsi, che resta recluso in un carcere militare ad Alessandria.
E se per i dirigenti dell’organizzazione, prima dello scorso 25 Dicembre, l’accusa era di aver svolto un’attività politica vietata, dopo il 25 Dicembre, l’’imputazione, assai più grave, nei loro confronti, è di aver partecipato ad una «organizzazione terroristica», tale essendo stata dichiarata dal governo la Fratellanza dopo l’attentato compiuto il 23 dicembre contro il comando di polizia di al Mansoura, cittàsatellite a Nord del Cairo. Attentato, che causò la morte di 14 agenti e che venne rivendicato, come altri seguiti nel frattempo, da Ansar Beit al Maqdis.
Ma non solo i vertici dell’organizzazione sono stati imprigionati. Anche la base dell’organizzazione ha subito colpi durissimi. In un solo giorno, il 25 Gennaio di quest’anno, in occasione delle manifestazioni (e degli incidenti esplosi puntualmente: più di 60 morti) per il terzo anniversario della rivoluzione del 2011, oltre mille seguaci di Morsi e dunque dei Fratelli Musulmani sono stati arrestati.
«La strategia del governo, cioè del potere, è semplice: fare terra bruciata intorno i Fratelli Musulmani» dice Hassan, un attivista della prima ora del Movimento dei Giovani del 6 Aprile, gruppo fra gli iniziatori della Rivoluzione del 2011, il quale, pur rivendicando una matrice laica e liberale, contesta il pugno di ferro adoperato dall’esercito contro la Fratellanza.
Insieme, incontriamo Adnan, uno studente di agraria e simpatizzante islamista di Giza, la città delle Piramidi diventata un’appendice del Cairo, dove negli scontri del 25 gennaio, 22 seguaci di Morsi sono stati uccisi.
«Il ricambio fra i militanti arrestati e quelli liberi è sempre più difficile. La polizia è dovunque. Anche solo a partecipare a un dibattito, non dico a una manifestazione, dell’opposizione si rischia la galera». Adnan conosce gente della Fratellanza che ha dovuto in fretta e furia rispolverare le pratiche della clandestinità. Lavorare in cellule ristrette e garantite. Mai riunirsi in pubblico. Affidare danaro e documenti a persone di fiducia. Organizzare azioni di contestazione mordi e fuggi.
Parallelamente, tutti i beni e le risorse dell’organizzazione islamista, in buona parte provenienti dall’autotassazione dei confratelli, non solo egiziani ma del mondo intero, sono stati confiscati. Resta da capire che ne sarà delle molte associazioni caritatevoli che la Fratellanza gestiva in tutto il Paese, per garantire scuole, ospedali, cibo a milioni di indigenti, ricevendone in cambio popolarità e consenso. «Per descrivere la situazione» suggerisce Adnan «si può dire che i Fratelli Musulmani sono stati messi con le spalle al muro. Non c’è niente di peggio di una massa di persone che non ha niente da perdere».