Lorenzo Soria, L’Espresso 21/2/2014, 21 febbraio 2014
MARK WAHLBERG E L’ARTE DI SOPRAVVIVERE
Dell’arte della sopravvivenza, di quella capacità che hanno alcuni individui di trasformare le situazioni difficili in un’opportunità, Mark Wahlberg sa qualcosa sulla sua pelle. Ultimo di nove figli, cresciuto in un sobborgo popolare e molto problematico di Boston, a 10 anni aveva già sperimentato le prime droghe, a 13 era un cocainomane con un paio di arresti sulle spalle, a 16 era di nuovo dietro le sbarre per aver accecato un occhio di un farmacista vietnamita nel corso di una rapina condotta sotto gli effetti del PCP, fenciclidina o polvere d’angelo. Avrebbe potuto continuare così, tra piccoli e grandi crimini, dentro e fuori dai penitenziari. Ma quella volta in Wahlberg scattò qualcosa. Forse fu l’influenza di un prete cattolico, che lo fece riflettere sul male procurato a innocenti. Forse il padre di un suo cognato, un marine che lo convinse ad arruolarsi, per sentirsi però dire che non potevano prenderlo: non aveva finito la scuola secondaria. Fatto sta che, una volta fuori, Mark si unì al fratello nei "New kids on the block", una band di rapper bianchi. Per un po’ portò avanti anche una carriera da solista col nome Marky Mark and the Funky Bunch. Niente di straordinario, però divenne quello coi pantaloni tenuti sempre bassi e che si toccava poco elegantemente l’inguine: risultato, la Calvin Klein lo volle come testimone per i suoi boxer. E qui incontra Penny Marshall, che stava facendo il casting per il film "Renaissance man". «Hai mentito a giudici e poliziotti, hai mentito ai tuoi genitori», gli disse la regista. «Perché non provi a vedere se riesci a mentire per professione?». Mark Wahlberg ci è riuscito al di là di ogni ragionevole previsione. Nel 1997, con "Boogie nights", Paul Thomas Anderson ne ha fatto una pornostar dotata di grande carica sessuale e attributi anche più vistosi, ma anche ragazzo fragile e vulnerabile. Ha provato che sa fare film di azione ( "La tempesta perfetta", "Shooter"), surreali ("Three kings"), comici ( "I love Huckabee", "The other guys"). Si è pure guadagnato due nomination agli Oscar: con "The departed", dove Martin Scorsese gli ha affidato i panni di quegli stessi poliziotti di Boston che da ragazzo lo hanno rincorso per anni; e poi come produttore di "The fighter". Arrivato a 42 anni, felicemente sposato e padre orgoglioso di quattro figli tra i quattro e i dieci anni, in chiesa a pregare tutte le mattine, Wahlberg è un uomo dalla molte vite. È un "survivor", uno che sopravvive a tutto. E quando Peter Berg gli ha portato una copia di "Lone survivor" si è subito riconosciuto nella storia vera di Marcus Luttrell, unico sopravvissuto di una pattuglia di Navy Seals finiti in un’imboscata sulle pericolose montagne del Hindukush, in Afghanistan. C’era un corpo speciale in cui lui, per un po’, aveva pensato di arruolarsi. C’era coraggio. C’era trasformazione umana. «Capisco bene quelli che pregano Dio chiedendo di poter dare il meglio di se stessi, nella loro vita personale e in quella professionale», sostiene l’attore. Che nel frattempo è anche diventato una vera potenza nel mondo della televisione, avendo ideato e prodotto serie come "Entourage", "Boardwak Empire" e ora "Wahlburgers", un reality show ispirato alla vera catena di hamburger della sua famiglia: ha appena fatto il suo debutto televisivo. «Per rivoltare la tua vita bisogna lavorare moltissimo». Un successo dietro l’altro. Destinato a diventare ancora più grande quando quest’estate vedremo Mark Wahlberg come protagonista del numero quattro di "Transformers", dove ha preso il posto che era stato di Shia LaBouef.
Complimenti, Mark.
«Per che cosa?».
Per avere finalmente preso il diploma delle secondarie.
«Per molti anni mi ha imbarazzato non averlo. Non volevo che i miei figli un giorno potessero dirmi: "Papà, se non hai finito le scuole tu perché dovrei farlo io?" Ed ero anche stanco di vedere i compiti di mia figlia Ella, che è in quinta elementare, senza avere idea di che cosa avessi davanti. In più, come sostenitore di programmi per promuovere la scolarizzazione non ero credibile. Adesso l’ho fatto ed è come se mi fossi tolto un grosso peso».
E col diploma in mano potrebbero finalmente accettarla nei marines o nel corpo dei Navy Seals.
«Temo di essere un po’ vecchiotto per quello ormai, non penso mi prenderebbero. Sono un atleta, ho fatto molti sport e sono sempre stato uno che vuole giocare, non di quelli che si accontentano di stare in panchina. Questo non vuol dire che ho la durezza e la prontezza di riflessi di un Navy Seal, ma quelli come loro mi ispirano a essere una persona migliore, un uomo e un marito e un padre migliore».
È questo che l’ha attirata nel film "Lone survivor"?
«Quando ho letto la storia, la mia reazione iniziale è stata che era perfetta per esibirmi in una parte che si sarebbe molto
fatta notare. Ma poi sono andato più a fondo, ho lasciato perdere le motivazioni personali e ho capito che ciò che volevo era raccontare la storia di questi soldati. Volevo onorare la vita e le famiglie di quelli che non sono più tornati. Non c’entra la politica, qui. Non è un modo per fare l’elogio della guerra. Il film è un tributo a loro e a tutti quelli che si arruolano in qualche esercito in qualche parte del mondo per debellare le forze del male. E al popolo afgano. Diciamo sempre che siamo in guerra con l’Afghanistan, ma in realtà noi siamo in guerra con i talebani. Proprio come lo sono molti afghani, che sono uomini di grande onore e grande lealtà».
Nel frattempo la sua carriera di produttore televisivo continua. L’ultima avventura è "Wahlburgers", una sorta di reality show ispirato a una catena di hamburger lanciata dalla sua famiglia.
«Le vere star sono mio fratello Paul che è lo chef e mia mamma. Lo so, molti sono scettici su questo, un po’ come quando dicevo che avrei voluto fare l’attore. "Ma certo, proprio tu!", mi schernivano. Ma anche questa volta penso che la gente resterà sorpresa. È una specie di documentario su come costruire un business familiare e penso che in molti lo troveranno piuttosto interessante».
Nel frattempo che ne è di "Entourage", il suo primo grande successo come produttore basato sulle sue esperienze dei primi anni da divo a Los Angeles? Il film si farà?
«Sì, finalmente, inizieremo le riprese ad aprile. E non sarà centrato sulle mie esperienze. Ne faccio sempre meno! Gli amici continuano a chiamarmi, ma io ormai me ne sto a casa e mi accontento dei loro racconti il giorno dopo. Il mio vero entourage sono mia moglie, i miei figli e una bravissima babysitter».
Un bravo ragazzo, tutto chiesa e famiglia. Quanto è importante la fede nella sua vita?
«La fede è la cosa più importante per me. Ogni mattina, come prima cosa, mi alzo e dico le mie preghiere. Come se fosse il primo giorno della mia vita. Lo so, per molti la religione non esiste o non ha senso, ma per me funziona. Nella vita passiamo tutti attraverso fallimenti e delusioni, ma se hai fede e mantieni la speranza vai avanti. Da quando ho scoperto la fede mi accadono cose bellissime. No, non prego per la mia carriera o per cose materiali, sarebbe ridicolo. Prego per trovare la forza di essere d’esempio, per essere un buon padre, un buon marito e un buon amico. Per rendere orgogliosi i miei genitori e per compensare tutti gli errori che ho fatto e il dolore che ho causato. E per poter ringraziare tutti quelli che mi hanno dato una seconda -e anche una terza- opportunità».