Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 21 Venerdì calendario

INCHIOSTRO DI QUINO

[Colloquio Con Quino] –

Non è colpa mia!, esclama Joaquín Salvador Lavado, in arte Quino. E sorride, con il pudore dell’infinita tristezza che i suoi occhi dolci gridano al mondo. «Sono sinceramente sorpreso. Non avrei mai potuto immaginare che, dopo tutti questi anni, il personaggio di Mafalda potesse essere ancora così amato. Soprattutto dai più giovani». Eppure le cinquanta candeline che la sua "enfant terrible" spegnerà il 29 settembre prossimo, e che sono state già festeggiate con una mostra dal più importante festival del fumetto, quello di Angoulême, non lo rendono in fondo pienamente felice. «L’amarezza è grande», confida all’Espresso. «Se Mafalda è ancora così attuale, se i problemi a lei tanto cari continuano a parlare alle persone di ogni età, significa che il mondo è sempre lo stesso. Anzi, se qualcosa è cambiato, è in peggio. La guerra continua ad essere sempre da qualche parte. C’è sempre una crisi economica nel nostro Paese, qualunque esso sia. E tutti vogliamo sempre risposte sincere dai nostri genitori, o da chi pensiamo possa farne le veci: lo Stato, la società o la scuola. Continuando a ottenere delle bugie, più o meno benintenzionate. Solo che non ci sono più padri che hanno le risposte. Insomma, il mondo è sempre più malato e la minestra piace sempre meno ai bambini».
Mafalda ha venduto ad oggi circa 50 milioni di copie in tutto il mondo: le sue strisce sono state pubblicate in 50 Paesi e tradotte in 20 lingue. L’editore italiano, Salani la festeggia con un volume doppio che contiene la "summa" delle strisce più documenti e testimonianze. Eppure, sebbene abbia lasciato tracce profonde nell’immaginario collettivo, la sua avventura non è durata a lungo. Nel 1973, dopo dieci anni di pubblicazioni quotidiane, Quino smette di disegnarne le strisce. «Ad un certo punto mi sono veramente stancato», ricorda. «Non ce la facevo più a dire tutto quello che non andava, a passare il mio tempo in un continuo atteggiamento di denuncia. Il momento in cui ho deciso di mettere fine alle sue avventure, è coinciso poi con l’inizio di un periodo nero per l’Argentina. Quello dei sequestri, delle sparizioni, della dittatura. Il regime militare ha rafforzato la censura. Anche volendo, non avrei mai potuto continuare». E neanche avrebbe potuto riprendere il filo interrotto dopo la deposizione di Videla. L’autore non ha mai avuto intenzione di ricominciare a raccontare le storie della sua pestifera creatura. Le sue rare apparizioni dopo gli anni Settanta sono legate alla promozione dei diritti umani: come la Mafalda che si vede in un manifesto del ministero degli Esteri argentino per celebrare il quinto anniversario della fine della dittatura (1988).
Ma perché non riprendere a disegnarla? Certo, i tempi erano ormai cambiati. Il periodo storico nel quale era nata Mafalda non ha avuto eguali: la guerra del Vietnam, papa Giovanni XXIII, i Beatles, il femminismo. «Sembrava davvero che qualcosa potesse cambiare, che l’immaginazione potesse arrivare al potere», ricorda Quino. «In realtà, niente di questo è accaduto e, dopo, nulla è stato più come prima. Custodisco ancora il desiderio che il mondo possa essere diverso: ma non ne ho più la speranza, ormai. Prendiamo l’esempio del mio Paese. Non si può dire che l’esperienza della dittatura non abbia fatto crescere uno spirito più democratico. Non è stato tutto dimenticato, però esiste il problema del peronismo. Ormai è al governo, all’opposizione…insomma, sono tutti peronisti e litigano tutti tra di loro. È tutto così confuso. Sono sessant’anni che non cambia una virgola».
In diverse occasioni, Quino ha dichiarato che Schulz, il creatore dei Peanuts, era il suo maestro. «Ha rivoluzionato il linguaggio del fumetto e la mia vita», dice con fermezza. Ma non è da un desiderio di emulazione, o semplicemente da un omaggio, che nasce Mafalda. All’epoca Quino era stato ingaggiato per lavorare alla campagna pubblicitaria della Mansfield, società produttrice di elettrodomestici. L’obiettivo era creare una famiglia di personaggi da utilizzare come testimonial. Anche il nome della piccola è quindi un richiamo al nome della ditta. «Mafalda è nata per caso: altrimenti, non avrei mai creato un personaggio fisso», ammette quasi con nostalgia. «Mi sono sempre divertito di più a realizzare un’illustrazione a piena pagina, cambiando ogni volta protagonisti e ambientazioni».
In Italia, la piccola contestataria arriva in un’antologia nel 1968. L’anno seguente, Umberto Eco firma la prefazione della prima raccolta. Dal 1970 le sue strisce escono quotidianamente su "Paese Sera". E nel 1976, per sei anni, Quino abiterà nel Belpaese. «Sono stato accolto a braccia aperte da questa nazione che amo tantissimo e alla quale continuo a essere molto legato» commenta. «Anche se sono nato in una provincia ai confini con il Cile, e a differenza di tanti miei compatrioti non mangio carne tutti i giorni e non ballo il tango, l’Argentina è la patria. Ma sono circondato di gente di origine spagnola, italiana, persino islamica: insomma, mi sento mediterraneo».
Quino festeggia quest’anno anche i sessant’anni della sua carriera di disegnatore. Che non è stata solo Mafalda (vedi box). «Ma mi sono rassegnato al fatto che tutti mi parlino e mi chiedano ancora di lei», ammette malinconico. «È un po’ come "Per Elisa": tutti la conoscono dalle suonerie dei cellulari, ma pochissimo hanno ascoltato la vera musica di Beethoven». Quello della musica è un mondo che affascina Quino. Ha sempre disegnato ascoltando la radio, ricorda: «Mozart, Bach, Beethoven sono i compositori che amo. Ho un po’ più di difficoltà con la musica contemporanea, che peraltro apprezzo molto. Ma proprio non capisco quei brani dove c’è un suono ogni due minuti».
Poi racconta quel famoso 9 novembre 1954, quando fu pubblicata la sua prima tavola nella rivista "Esto es". «Il momento più bello della mia vita», ricorda Quino. «Mafalda, in effetti, è solo una parentesi del mio percorso lavorativo. Quando iniziai con lei, realizzavo già tavole umoristiche da undici anni. E non ho mai smesso, sono andato avanti fino all’anno scorso, quando ho deciso di non disegnare più per problemi alla vista. Mio malgrado, sono stato costretto a rinunciare al mio lavoro. Mi sarebbe piaciuto continuare a trattare temi quali lo spionaggio globale, l’immigrazione, il dramma dell’isola di Lampedusa o la guerra in Siria».
Armato di matita e inchiostro, l’autore argentino ha cercato per anni di capire la natura umana. Tutti i suoi disegni esprimono questo sguardo indagatore, disincantato, eppure innamorato degli uomini. Con un’immagine muta, Quino è stato capace di raccontare un intero universo, di far breccia nel cuore di una situazione ben precisa rendendola universale. E lo fa con pochi tratti di disegno e pochissime parole. Qual è il suo segreto? «È un segreto vecchio come il mondo! Molti scrittori hanno avuto bisogno di poche parole per descrivere cose complicatissime. Mica sono tutti come Balzac! Si dice che anche dio abbia creato il mondo in sette giorni... Insomma, non ho inventato nulla». Poi però una spiegazione la trova: «Sono cresciuto con il cinema muto, quella è stata la mia scuola. Quando viaggiavo da una parte all’altra del mondo, mi è capitato spesso in aereo di guardare almeno un film. E l’ho sempre fatto senza il suono, perché volevo vedere se solo con le immagini riuscivo a capire la storia».
Quando gli chiediamo di raccontarci come funziona il suo personalissimo atelier creativo, descrive giornate intere passate seduto al suo tavolo da disegno. «Facevo prima dei bozzetti a matita, poi disegnavo a china. C’erano giorni in cui le idee non venivano e allora realizzavo schizzi su schizzi. In questi casi non usavo carta da disegno, ma un block notes. Appuntavo idee confuse, o non finite, cambiavo situazioni, personaggi e raccoglievo tutto in una cartella. Era la mia miniera di idee. Una volta mi è capitato di riprenderne una che era lì da nove anni! Ho sempre cercato di fare un humour atemporale, lavorando sui problemi che l’umanità si trascina dietro da secoli. Non amo la satira politica, perché non voglio che chi guarda una mia vignetta si chieda, a distanza di anni, chi fosse il primo ministro dell’epoca».
Eppure la passione politica, l’osservazione attenta della società, sembrano qualcosa che non va più di moda in quest’era digitale che tanti cambiamenti ha apportato, sia alla creazione che alla fruizione dei testi e delle immagini. E questo ha trasformato, almeno in parte, anche il linguaggio del fumetto. «Credo che i giovani disegnatori si preoccupino meno di questi aspetti, di tutto quello che insomma succede nel mondo. Hanno difficoltà a pubblicare. Non c’è più così tanto spazio. Nell’editoria come sui giornali. Ma hanno sicuramente un vantaggio rispetto alla mia generazione. Possono utilizzare gli strumenti tecnologici legati al mondo di Internet che ampliano le possibilità di esprimersi e di farsi conoscere. Ognuno ha il suo sito, il suo blog». A questa rivoluzione tecnologica, Quino non parteciperà: «Personalmente, non sono mai riuscito a disegnare con un computer. Ho bisogno di sentire la carta, di usare la matita, la gomma, l’inchiostro...».