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 2014  febbraio 21 Venerdì calendario

IL MIO URUGUAY


Stati che devono rifarsi un’immagine o che giostrano interessi privati invece che pubblici; multinazionali che si battono per modificare una direttiva o annacquare un regolamento; alti funzionari che cambiano casacca, escono dalla Commissione e giurano fedeltà all’impresa; uffici di avvocati che dribblano le più elementari regole sulla trasparenza; think tank che sfornano rapporti "indipendenti" anche se vivono grazie a munifici sponsor; sindacati, associazioni di consumatori ed ong che entrano nell’arena decisionale europea agguerriti ma con meno munizioni dei loro rivali...
Non è il Far West, è Bruxelles, dopo Washington la seconda città più lobbizzata del mondo. «Le lobby sono come la stampa gratuita, se vi danno informazioni gratis vuol dire che il prodotto sei tu. Sei tu, deputato, funzionario, diplomatico, commissario, quello da convincere», spiega, sorridendo, il lobbista di un grande gabinetto brussellese che, come tutti i colleghi, si prepara a modo suo alle elezioni di maggio quando arriveranno nuovi eurodeputati da avvicinare, blandire, convincere e che avranno oltretutto il compito di nominare il presidente della Commissione. L’arte di influire sul processo decisionale, nella capitale comunitaria, è un affare da oltre un miliardo di euro l’anno, specchio fedele di un potere, quello europeo, in costante crescita e che incide sull’80 per cento delle politiche nazionali e su un mercato di 500 milioni di consumatori. L’impatto di quello che si decide nel triangolo formato da Commissione, Parlamento e Consiglio Ue supera però di molto le frontiere dei 28 Stati membri. Nel 2012 Hillary Clinton, allora Segretario di Stato, si impegnava in prima persona in una attiva lobby a favore del shale gas in Europa e lo faceva con successo visto che la Commissione Ue, lo scorso 22 gennaio, lasciava gli Stati liberi di gettarsi in questo mercato con grandi vantaggi per le compagnie nordamericane. Una decina di anni prima era Colin Powell a provare a fare di tutto (stavolta con scarso successo) per bloccare il regolamento comunitario Reach sulla chimica.
Imprese e multinazionali da tutto il mondo e governi rampanti, su tutti Russia e Cina, sono di casa a Bruxelles. «Possiamo contare tra i 15 e i 30 mila lobbisti. Un’attività molto lucrativa che è aumentata costantemente dagli anni Novanta», spiega Martin Pigeon di Corporate Europe, una ong - di fatto una lobby contro le lobby - che si prefigge di iniettare trasparenza nella meccanica comunitaria. «I due terzi dei lobbisti», conteggia Pigeon, «lavorano per interessi commerciali privati, il 20 per cento difende interessi pubblici, come Stati, Regioni o Comuni, e il 10 la società civile organizzata.Basta conoscere queste cifre per notare che c’è un problema di sproporzione dei mezzi». La bilancia si può invertire se il dibattito su una direttiva o una politica diventa pubblico: «Ogni volta che una tematica resta tecnica ed interna, la società civile perde, ma se esce sui media, allora anche i cittadini possono incidere, scrivono agli eurodeputati, diventano massa critica. Il rapporto di forza si inverte».
A volte succede. Il 22 gennaio il Commissario Ue al commercio estero Karel de Gucht decide di sospendere i negoziati su alcuni capitoli del TTIP, l’Accordo di Partenariato commerciale tra Ue ed Usa, di fatto la più importante intesa economica del pianeta che punta a integrare due mondi con standard legali e commerciali differenti promettendo benefici per oltre 500 miliardi di euro. De Gucht ha detto stop per lanciare una consultazione pubblica di tre mesi perché i negoziati, condotti nell’assoluta discrezionalità, rischiavano di sollevare un’ondata di indignazione popolare pari a quella che ha fatto naufragare l’Acta, l’Accordo internazionale anticotraffazione e pirateria. «Le ong si lamentano sempre contro le lobby, ma anche loro sono potenti a Bruxelles», sbotta un funzionario della Commissione Ue vicino ai negoziati.
In molti altri casi le cose vanno diversamente. Il 13 dicembre scorso la Commissione Ue doveva presentare i criteri di identificazione dei perturbatori ormonali, accusati di danni alla salute (tumori e fertilità) e all’ambiente, ma sotto la pressione dell’Acc, l’American Chemistry Council, del Cefic, la federazione Ue della chimica, e di Croplife, che difende l’interesse dei produttori di pesticidi e che conta tra le altre Basf, Bayer, Monsanto, Syngenta, la decisione è stata rimandata sine die. Stesso discorso per il regolamento CO2 auto, annacquato nei suoi obiettivi e soggetto ad una feroce lobby da parte dell’industria delle 4 ruote, con tanto di lettere segrete inviate dai costruttori tedeschi all’allora Commissario Ue all’industria, il teutonico Gunther Verheugen. Non solo: il 95 per cento degli emendamenti arrivati al Parlamento Ue sulla proposta di regolamentazione sui gas fluorurati, quelli di frigoriferi e condizionatori, estremamente dannosi per l’effetto serra, erano stati dettati dai lobbisti.
GIOVANE, PREPARATO E PRUDENTE
Come si fa lobby a Bruxelles ? «Il lobbista deve essere come Machiavelli», spiega il politologo Rinus van Schendelen, professore a Rotterdam, consulente per imprese e governi ed autore di "L’arte di fare lobby nella Ue: più Machiavelli a Bruxelles". «Deve avere l’ambizione necessaria per vincere, studiare e prepararsi al meglio e quindi, in battaglia, essere prudente». Una lobby che è diversa dalle altre. «Nella Ue ogni combattimento è molto più duro, competitivo, in gioco ci sono più interessi, se in Italia hai 15-20 gruppi di potere che lavorano su un dossier, a Bruxelles ce ne sono 180-200. Il livello, la dimensione e la qualità della battaglia è molto più elevata». E al fronte, da sempre, ci vanno i giovani.
Karen Massin ha 38 anni ed è direttore operativo di Burson Marsteller, oltre 7 milioni di fatturato e 60 dipendenti, il principale gabinetto di lobby di Bruxelles. «A parte pochi senior adviser, abbiamo tutti tra 25 e 40 anni», spiega in una delle sale conferenza della sede della società, tre piani a Square de Meeus, a poche centinaia di metri dal Parlamento Ue. Caraffe d’acqua e bicchieri riempiono i tavoli. «Parliamo per ore, le riunioni sono lunghe, il lavoro è minuzioso, il lobbista deve fare da tramite tra le imprese, i gruppi di interesse e le istituzioni Ue. La legislazione comunitaria è spesso così: un singolo paragrafo ha un impatto enorme sull’industria». Interessi che giustificano grandi investimenti: un lobbista può arrivare a costare fino a mille euro l’ora. In quest’arte cara e minuziosa c’è chi eccelle. «La lobby moderna ha le sue origini negli Usa e gli statunitensi con gli inglesi sono i migliori», snocciola la sua classifica van Schendulen, «seguiti dalle società olandesi, quindi i Paesi scandinavi e, negli ultimi dieci anni, i tedeschi». E poi i nuovi venuti, più rapidi a imparare di quanto non lo siano Paesi fondatori, come l’Italia. «Stanno arrivando a Bruxelles tanti giovani dall’est Europa: Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia. Sono eccellenti professionisti, hanno fatto le università occidentali e sono molto ambiziosi». In fondo alla classifica i Paesi del sud. «Ci sono tante trattorie a Schuman (la rotonda su cui si affacciano Commissione e Consiglio Ue, ndr), ma non basta andare a pranzare per fare lobby».
A CIASCUNO IL SUO TORNACONTO
«Negli ultimi anni la concorrenza a Bruxelles è diventata feroce, con una vera e propria guerra dei prezzi», assicura un lobbista. «Lo vediamo sui grandi contratti. Coca cola ogni tre anni cambia ufficio e quest’anno hanno fatto domanda 12 gabinetti, non s’era mai vista tanta concorrenza». Alla fine ha vinto Interel. «La crisi ha portato al raggruppamento dei piccoli uffici», il parere di Massin, «e ultimamente sono venuti qui diversi gabinetti Usa, a cui le imprese americane preferiscono rivolgersi». Da Washington si sono accorti che Bruxelles esiste, almeno economicamente.
Se gli statunitensi vanno dai loro, i cinesi preferiscono il lobbista locale. «I gruppi di pressione cinesi usano esperti europei come moderni soldati di ventura», spiega ancora Van Schendulen. Altro Paese particolarmente attivo a Bruxelles è la Russia e anche loro si affidano a esperti locali. «Mosca ha iniziato nel 2006, in occasione della Presidenza del G8, a rendersi conto che non sapevano come funzionavano i media occidentali, da allora hanno preso coscienza dell’importanza dell’immagine e si sono rivolti a noi», racconta Benoit Roussel, lobbista per Gplus, uno dei due gabinetti che segue gli interessi di Mosca a Bruxelles. A creare Gplus è stato Peter Guilford, ex portavoce della Commissione europea, che ha portato con sé altri ex colleghi ed ex giornalisti, le due categorie più ambite, perché dal portafoglio denso di contatti. Gplus ha gestito l’immagine di Mosca durante la guerra con la Georgia del 2008 mentre i concorrenti di Aspecting Consulting facevano lo stesso per Tbilisi. L’altro gabinetto che segue gli interessi di Putin a Bruxelles è Hill & Knowlton, uno dei big del settore, ma nella rete del Cremlino in Occidente figura anche l’ufficio americano Ketchum e il britannico Portland, fondato da Tim Allen, ex portavoce di Tony Blair.
REGOLE CHIARE, MA NON PER TUTTI
Nel 2008, sotto la pressione di diverse ong, è nato il primo registro dei lobbisti attivi a Bruxelles. «Si sono iscritti 15-20 mila lobbisti individuali e 6.000 società e», spiega Federica Patalano, ricercatrice nel settore delle lobby e nel gruppo che gestisce il registro, «devono rispettare degli standard etici e di trasparenza, pena la sospensione e la perdita di accesso al Parlamento, ma i controlli non sono dei più stringenti, mancano le risorse per il monitoraggio, anche per questo i numeri non sono precisi». Oltretutto, sono esonerate due influenti categorie: i religiosi e gli avvocati. Tra le 6 mila società figurano solo 45 studi di avvocati, pochi per una città come Bruxelles. Non è un caso. «Se un’impresa vuole fare le cose di nascosto va da un gabinetto di avvocati», si lamenta Robert Mack anche lui di Burson Marsteller. Fuori registro giocano i grandi uffici nordamericani, alcuni a Bruxelles da anni, come Covington, ed altri - Baker Botts, Hogan Lovells - sbarcati di recente per approfittare del mercato aperto dai negoziati per il TTIP. Nessuno di loro è iscritto e nessuno ha voluto dare spiegazioni sul perché preferiscano così. Nessun commento anche su un’altra pratica in voga, quella del "revolving door" porta girevole: il passaggio dalle alte sfere della Commissione alla lobby. «Da Covington», accusa un lobbista di una società concorrente, «ci sono ex ambasciatori, ex direttori generali o capi unità della Commissione».
I casi sono numerosi ed il fenomeno arriva a toccare i Commissari europei: dei 12 che hanno abbandonato la prima commissione Barroso, metà è passata a fare il lobbista. Caso emblematico quello del tedesco Gunther Verheugen che, dimessi gli abiti di Commissario all’industria ha aperto il suo gabinetto di lobby. Unica limitazione: non poter contattare per 24 mesi i suoi ex sottoposti. Altro caso: Serge Abou, un francese per trent’anni in posti chiave della macchina comunitaria, da direttore generale alle relazioni esterne fino ad ambasciatore della Commissione in Cina, una volta andato in pensione nel 2011 ha firmato per il gigante cinese della telefonia Huawei, che ha una un’indagine aperta a Bruxelles per comportamenti anti-competitivi. Huawei, come tutte le grandi firme, non lesina risorse, spendendo ogni anno oltre 3 milioni di euro in lobby a Bruxelles, con contratti ben distribuiti tra Apco, Aspect, Fleishman Hillard, Isc e The Skill Set.
Ancora più recente il caso di Philip Lowe, fino al 31 dicembre 2013 direttore generale per l’Energia, che due mesi prima della pensione ha firmato per l’Autorità britannica alla concorrenza (aggiungendo allo stipendio di 19 mila euro anche i 4.500 di gettone per l’agenzia). Michel Petit, responsabile del serivizio legale della Commissione nonché membro del Comitato etico incaricato di valutare proprio i casi di "revolving door", una volta andato in pensione è passato a Clifford Chance, che conta come cliente Philip Morris. Il tutto mentre si discuteva la nuova direttiva Tabacco.«Le istituzioni non affrontano il problema in maniera seria, la Commissione, semplicemente, nega», accusa Corporate Europe.
Nei 133 casi di possibili conflitti di interessi esaminati nel 2013, la Commissione non ha mai ritenuto di impedire al suo ex funzionario di intraprendere una nuova carriera e solo in trenta occasioni ha imposto limitazioni. L’anno prima Barroso aveva detto no una volta su 108. «È la dimostrazione che il sistema funziona», sbotta Antonio Gravili, portavoce del Commissario alla Pubblica amministrazione Maros Sefcovic. «Chi abbandona la Commissione accetta posti per cui sa che non avrà problemi. E lavorare è un diritto, anche per chi va in pensione, non possiamo proibirlo». Proibire magari no, ma controllarli di più, forse sì.