Fabrizio Salvio, SportWeek 15/2/2014, 15 febbraio 2014
GIACOMO BONAVENTURA
Tatuaggi?
«Zero».
Orecchini?
«Ne vede uno?».
Creste?
«Mai fatte».
Vizi?
«La chitarra».
Restano le cose di campo. Allora vediamo: esclusi addetti ai lavori e malati di calcio, alzi la mano chi sa dire ruolo e caratteristiche tecniche di Giacomo “Jack” Bonaventura. Quanti sono? Troppo pochi.
Ecco il limite, se non la colpa, del grande circo del pallone: tenere i riflettori accesi sempre e soltanto sui soliti noti, meglio se stranieri, meglio ancora se sbarcati in una grande o presunta tale, abbassando invece le luci sui signor Bonaventura di turno. Quelli che non “tirano” sui giornali o in tv ma, vivaddio, legnate nella porta avversaria. Giovane 24 anni prodotto del vivaio italiano, piedi da fantasista sotto gambe da podista che lo hanno portato in Nazionale: un uomo copertina, non fosse per il cognome, le origini (San Beverino Marche), il club in cui gioca (la dignitosissima ma provinciale Atalanta). E un look che non ha nulla del calciatore moderno. Hai detto niente.
Scusi, ma così ridotto, dove vuole andare?
«È quello che mi dico anch’io (risata)... Vado avanti col mio stile».
E quale sarebbe?
«Quello di una persona tranquilla, a volte anche troppo. So che in certe situazioni dovrei essere più cattivo. Il calcio è un mondo spietato, se resti sempre buono al tuo posto ci sarà ogni volta quello più furbo che se ne approfitta».
In che modo?
«Per esempio arruffianandosi i dirigenti al momento di firmare un nuovo contratto. Io sono uno che alla fine dice sempre: “Va bene così, dai...”. E nel calcio non è questo l’atteggiamento da tenere. Ma sono contento di quello che sono, perché resto me stesso. Un tipo normale, prodotto di una famiglia normale».
Composta come?
«Papà operaio, mamma cuoca in un ristorante, una sorella più grande che ha studiato anche per me. Si è laureata, ha viaggiato, conosce le lingue, oggi vende merci all’estero per conto di un’azienda. Papà mi accompagnava agli allenamenti e ci ha sempre creduto, mamma molto meno e continuava a ripetere: pensa alla scuola. Ha cominciato a cambiare idea quando a 15 anni ho lasciato casa per andare a giocare in Toscana».
Ha mai pensato che se il suo cognome avesse un suono brasiliano o finisse con una “c”, alla slava, a quest’ora sarebbe già in una grande?
«Ci ho pensato, ma, più che spaccarmi il culo in campo, non posso far niente. Mi viene in mente Giovinco: è un altro che è stato nella mia stessa situazione, che ha faticato tanto prima di imporsi. Sono rassegnato: gli stranieri, anche se meno forti, eserciteranno sempre un fascino superiore agli italiani. Per cambiare le cose dovrebbe cambiare.la mentalità dei club, e non credo succederà».
Mai come negli ultimi tempi è andato vicino al passaggio a una grande: rimpianti?
«No, perché a 24 anni non mi è ancora passato davanti l’ultimo treno. Ho l’età giusta per un’altra esperienza in una dimensione più importante. Mi piacerebbe giocare le coppe, anche se all’Atalanta devo tutto e qui mi sento felice».
Che cosa le offre la cosiddetta realtà di provincia che un grande club non potrebbe darle?
«La libertà di bere un caffè al bar, magari. O di fare due chiacchiere con un tifoso per strada. Ma una grande, e una metropoli, ti fanno crescere come calciatore e come uomo».
Nel secondo caso, la crescita passa anche attraverso il confronto con quelli che, per anzianità e vittorie, nello spogliatoio dettano legge.
«Io non ho timori reverenziali nei confronti dei grandi campioni. Dovrei ricominciare daccapo, ma sono pronto anche a questo».
Lascerebbe l’Italia?
«Sì. Inghilterra più della Spagna: per atmosfera, la Premier è il campionato più bello. E adoro Londra».
Lì però si gioca a mille all’ora e gli arbitri lasciano correre parecchio: per uno piccolo come lei...
«Meglio, diventerei ancora più cattivo».
È la seconda volta che parla così, riferendosi a se stesso: chi o cosa ha fatto scoccare la scintilla, facendola svoltare a livello di personalità?
«Non c’è stato un momento preciso. Il fatto di giocare con continuità mi ha permesso di conoscermi meglio, di capire quali fossero i miei punti di forza e, quindi, di affrontare con più convinzione le partite. Non è vero che si nasce con una personalità forte: la si può costruire nel tempo e con l’esperienza. È servito anche Colantuono, il mio allenatore: ha lavorato parecchio sul sottoscritto e, oggi che mi sta addosso di meno, è perché mi ha plasmato come voleva».
In che cosa deve migliorare?
«Dovrei essere un po’ più egoista. Pensare meno all’assist e più al gol».
La Juventus sarebbe perfetta per lei perché...
«Perché in questi anni, innanzi tutto a livello societario, ha dimostrato di essere all’avanguardia in Italia. Ha una marcia in più rispetto alle altre».
La Roma perché...
«Perché ha gente giovane e tecnica e un gioco che mi piace, divertente, forse meno pragmatico rispetto a quello juventino, ma redditizio».
Il Napoli perché...
«Perché mi incuriosisce la “piazza”, croce e delizia della squadra. Per temprare il carattere non c’è niente di meglio che qualche anno lì. E ha un grande allenatore come Benitez».
La Fiorentina perché...
«Perché, come la Roma, mi piace molto per il modo di giocare. Montella ha portato una mentalità nuova che può dare benefici a tutto il calcio italiano. È una realtà emergente e poiché credo di essere anch’io un emergente...». Nel calcio c’è troppa gente che dice di lavorare senza in realtà fare nulla
L’Inter...
«L’Inter è una squadra che si sta rifondando, non è facile adesso andarci a giocare. Ci vogliono le spalle larghe».
Il Milan...
«Sta ritrovando una sua dimensione dopo aver mandato via tanti grandi campioni. Ma è una società che mi piace molto. È una società di classe. Oh, ma non è che adesso mi fa passare per uno che si offre a destra e a sinistra?».
Tranquillo... A proposito, il suo presidente Percassi ha detto che non la vende per meno di 15 milioni. E chi la prende, a quella cifra?
(ride) «Infatti, secondo me lo ha detto apposta per impaurire tutti e tenermi qua. Da quando c’è lui, io sono diventato un giocatore importante».
Se guarda indietro, che cosa vede?
«Un ragazzino che ha fatto di tutto per arrivare dov’è adesso. Basandosi su determinazione, generosità, impegno, ambizione».
La maglia numero “10” è un peso, un onore o una responsabilità?
«L’ho presa l’anno dopo la B con l’Atalanta. Avevo fatto bene, segnando 9 gol, il “10” era libero, chiesi a Doni, il leader della squadra, cosa ne pensasse e lui rispose: “Vai, buttati”. Me la sono sentita, non è un peso. È una responsabilità, ma a me le responsabilità piacciono».
Tra i grandi “10”, il suo idolo è Del Piero. È anche il più forte?
«Metto lui e Torti sullo stesso piano. Forse un po’ meglio Del Piero, dai... Mi piace il suo atteggiamento sempre positivo».
Crede di assomigliargli?
«Non voglio paragonarmi a qualcuno, dico che il trequartista più forte in Europa oggi è Hazard del Chelsea». Qual è la cosa che le piace meno del suo mondo?
«Ci sono troppi che dicono di lavorare senza in realtà fare nulla».
Sa che al suo paese le hanno dedicato una canzone?
«Sì. Massimiliano Caciorgna, che l’ha composta, me l’ha fatta sentire».
E lei, cosa suona alla chitarra?
«Blues. Figurati: i compagni ascoltano tutti il rap...».
Quando torna a San Severino Marche è sempre una festa?
«Sempre. Tranne quella volta che, l’anno scorso, dopo un gol all’Inter, uno dei miei migliori amici, interista, mi chiuse in faccia la porta del suo bar».