Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 20/2/2014, 20 febbraio 2014
LE CREPE NELL’ULTIMO MURO D’EUROPA CIPRO ORA SOGNA (IN NOME DEL GAS)
L’Europa termina dove inizia un lungo filare di giovanissimi ulivi, piantati di recente in vasi di terracotta, in quei 40 o 50 metri di territorio senza padrone che segnano la linea di confine fra sud e nord. Fra l’europea Repubblica di Cipro e la Repubblica turca di Cipro del Nord, riconosciuta soltanto dalle mappe geografiche stampate ad Ankara. «Pasport Kontrol», pretende il lato turco, con tanto di visti d’ingresso e di uscita, e di avvertenze doganali sul passaggio di valuta. Mentre — a pochi metri di distanza — il poliziotto greco concede soltanto un’occhiata di circostanza ai documenti: perché dall’altra parte, per tutti tranne che per i turchi, non c’è un altro Stato, ma solamente un’invasione. Che dura da 40 anni.
Se le trattative per la riunificazione, avviate la settimana scorsa dalla «dichiarazione congiunta» dei due leader, il presidente greco-cipriota, Nicos Anastasiades, e il turco-cipriota, Dervish Eroglu, andranno in porto, questo varco pedonale lungo la via Ledra, la strada piena di negozi e caffetterie che taglia verticalmente la città, diventerà il Check-point Charlie di Nicosia, un ricordo. Scomparirà forse anche la targa che segnala con rammarico, sul lato greco, «l’ultima capitale divisa» da un muro poco vistoso, ma molto resistente. Ad abbatterlo ci hanno provato in tanti, nell’arco di quattro decenni. C’era andato abbastanza vicino, nel 2004, l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, con il piano che porta il suo nome e che fu approvato dal 65% dei turco-ciprioti, ma respinto dal 76% dei greco-ciprioti. La spada è rimasta infilata nella roccia. Granitica, come la diffidenza bilaterale.
A misurarsi con l’impresa sono ora due capi-negoziatori, il diplomatico Andreas Mavroyiannis e l’accademico Kudret Ozersay, uniti non soltanto dalla determinazione di non fallire, ma anche da un’inedita somiglianza. Da sola, però, non basterebbe. Se a carburare il nuovo slancio non ci fossero immensi giacimenti sottomarini di idrocarburi che attendono in fondo al Mediterraneo orientale, tra Cipro e Israele, il progetto di un gasdotto comune verso la Turchia e l’Europa, il pressante interessamento della Casa Bianca, una crisi finanziaria che ha portato l’isola, un anno fa, sull’orlo del crack. E, non ultimo, il desiderio dei turchi-ciprioti di uscire dal loro claustrofobico connubio con Ankara. Adesso che il piatto piange (un po’) nei casinò del nord, la fine dell’embargo farebbe comodo. Dalla Central Bank si guarda con una certa ansia alle 150 banche proliferate dall’altra parte e ci si interroga sulle loro attività e sugli effetti di un ricongiungimento proprio ora che disoccupazione (al 18%) e povertà dilagante nella classe media rallentano la ripresa. Ma tornare assieme converrebbe a tutti i ciprioti. Anche se non tutti sono disposti ad ammetterlo: «Mio suocero ha settant’anni e non è per nulla interessato a tornare a Pafo, nel sud, da dove fu costretto ad andarsene nel 1974 dai greci», alza le spalle Fatima, che è nata l’anno prima dell’arrivo delle truppe turche. Pure i profughi greco-ciprioti del nord hanno avuto tempo per ricostruirsi un’esistenza a sud, ma Marlene Philippou, che aveva 15 anni quando dovette abbandonare Keryneia (Girne, per i turchi), conta i giorni che la separano dal ritorno: «Bisogna tenersi pronti. Può essere questione di 3 o 6 mesi — dice —. Obama preme, stavolta sarà diverso. Molte delle nostre vecchie case non ci sono più, lo so, ma ci diano in cambio un pezzo di terra e il giorno dopo ci mettiamo sopra un caravan».
C’è un sindaco, eletto in esilio, che già lavora al recupero delle proprietà perdute: «Esistono i registri lasciati dagli inglesi, fortunatamente», osserva Glafkos Cariolou che dal 2003, quando la frontiera fu riaperta anche per i ciprioti, torna spesso a Keryneia. «Stringo relazioni con i turco-ciprioti, per preparare il terreno alla fine dell’occupazione. Un’alleanza iniziata da tempo, ma più evidente negli ultimi 10 anni».
Ambasciatore Mavroyiannis, anche lei è ottimista? «Ci sono molte circostanze favorevoli, ma non posso dirmi ottimista — frena il capo dei negoziatori greco-ciprioti —. Da Ankara arrivano messaggi incoraggianti, ma qui molti hanno perso ormai la speranza». Gli Usa hanno fretta. «Non so. Finora hanno cercato di essere d’aiuto, senza interferire. Solo una soluzione concordata stavolta può essere sottoposta a referendum e non sarà facile raggiungere un accordo».
Dall’altra parte c’è più impazienza: «Non ci vogliono anni — assicura Mustafa Erülgen, responsabile dell’Informazione —. I nodi li conosciamo tutti. Ci vuole solo la volontà politica di risolverli. E di capire che non vogliamo essere trattati come una minoranza. Vogliamo condividere la sovranità, perché questo avviene in una federazione, nel rispetto delle identità culturali e religiose».
Elisabetta Rosaspina