Paolo Legrenzi, la Repubblica 20/2/2014, 20 febbraio 2014
PERCHÉ LA MENTE HA BISOGNO DI CIFRE-LIMITE
Il dibattito contemporaneo usa il concetto di “soglia”. Si è detto: «Accordo sulla legge elettorale: soglia al 37% per il premio di maggioranza». Qui la soglia è un limite da superare: il 37% dei voti. Ma si è anche detto, parlando delle condizioni economiche del paese: «L’Europa ci punisce per aver sforato la soglia del 3% (del rapporto deficit/Pil fissato dai parametri di Maastricht)». Nelle discussioni sulla legge elettorale e in quelle economiche, la parola “soglia” è la stessa. Purtroppo dietro ci stanno due concetti ben diversi. Nel primo caso, “soglia” indica un limite da raggiungere. Per esempio, una persona: devo pesare 55 chili! Ma la stessa persona può fare un calcolo diverso, più complicato: «Siccome sono alta 165 centimetri, devo pesare un terzo della mia altezza, cioè 55 chili». Qui non si tratta di un limite, come nel caso della soglia elettorale, ma di un rapporto che fissa un criterio in funzione di un obiettivo.
Il senso del rapporto (che è poi una frazione, in aritmetica) e la sua definizione devono essere chiari. Si vede a occhio che, se il peso è 1/3 dell’altezza, si “sta meglio”. E tuttavia, in questi casi, il linguaggio quotidiano non usa mai la parola “soglia” e qui è l’origine della difficoltà di comprensione del criterio di Maastricht. Almeno per i non addetti ai lavori. Già a buon senso uno penserebbe, alla luce dei suoi bilanci personali, che non si dovrebbe spendere più di quel che s’incassa. Ma, se si accetta l’idea che si può essere in deficit, perché proprio il 3%?In fondo cambiare dello 0,1% o dello 0,2% può fare una bella differenza con cifre tanto grosse.
Eppure una buona soglia stabilita dagli uomini non può essere il 3,1%. Il fatidico 3% non è stabilito dalla teoria economica come il 3,14 in geometria (il rapporto tra diametro e circonferenza di un cerchio). La spiegazione della scelta del 3% è nella mente degli uomini. Noi preferiamo le cifre tonde, semplici, quando dobbiamo porci un obiettivo sacro e inviolabile. Tanto vero che possiamo dire “quasi il 3%”, ma non “quasi il 2,7%”. Il test del “quasi” mostra quali sono i “buoni” sistemi di riferimento, quelli intuitivi, come dei paracarri che segnano i punti cruciali sulla strada dei numeri.
La confusione tra la soglia come limite e la soglia come rapporto segnala storia dell’astronomia e le origini della psicologia sperimentale. Nell’inverno del 1796, nell’osservatorio di Greenwich, Kinnebrook, assistente dell’astronomo reale, registra il passaggio degli astri in cielo. Un compito cruciale: quelle osservazioni servono per tracciare le rotte marittime e l’impero dipende da tali rotte. L’astronomo reale, Lord Maskelyne, s’accorge che le rilevazioni dell’assistente divergono di “quasi un secondo” dalle sue. “Quasi un secondo”, come dice lui, è troppo (in realtà erano 0,8 secondi). Kinnebrook è licenziato e, poco dopo, muore. Ma nel 1822 l’astronomo Bessel raccoglie i dati di molti osservatori tedeschi e li confronta. Scopre che la soglia di errore è un rapporto che varia in funzione delle condizioni di osservazione (luminosità del cielo, per esempio) e delle capacità del misuratore (doti, addestramento). Insomma, anche in questo caso non c’era un limite fisso, invalicabile, che giustificasse la punizione di Kinnebrook, come quella dell’Italia se supera il 3%. Si trattava di un rapporto variabile, in funzione delle circostanze.
Purtroppo il primo modo di pensare era intuitivo, anche se sbagliato. Il secondo era corretto, ma più complicato da capire.