Federico Rampini, la Repubblica 20/2/2014, 20 febbraio 2014
3% – [QUEL NUMERO FETICCIO CHE GOVERNA LE NOSTRE VITE]
Siamo vittime del feticismo dei numeri e non ne conosciamo la ragione. Chi sa dire perché siamo soggetti all’implacabile vincolo del 3%, soglia massima nel rapporto deficit/ Pil? L’Italia con Matteo Renzi a Palazzo Chigi vorrà sondare i margini di flessibilità concessi da Bruxelles, rispetto a quel numero magico e crudele. Ma la validità originaria del 3% viene raramente rimessa in discussione. In Europa, s’intende: perché negli Stati Uniti la “dottrina 3%” è stata ignorata da Barack Obama, poi pubblicamente ripudiata perfino dal Fondo monetario internazionale.
La storia di quel numero “scolpito nella pietra” è complicata, opaca e misteriosa. Risale al 1991, quando viene firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo Trattato, fondamento per l’unione monetaria da realizzarsi nel 1999. Economisti e giuristi che lavorano a quei testi, sotto l’autorevole influenza di Tommaso Padoa Schioppa, esplorano le condizioni per “un’area monetaria ottimale”. In cerca di criteri di stabilità, finiscono per accordarsi sui seguenti parametri per l’accesso all’euro: inflazione non più alta di 1,5 punti rispetto ai tre paesi con il tasso d’inflazione più basso; deficit statale non superiore al 3% del Pil; debito pubblico non superiore al 60% del Pil; stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria; tassi d’interesse di lungo termine non superiori di oltre due punti rispetto ai tre paesi dai tassi più bassi.
Di tutti questi criteri, alcuni non sono mai stati veramente applicati, come quello sul debito (neppure la Germania lo rispetta). Altri hanno perso rilevanza con la creazione dell’euro: i tassi d’interesse e la parità di cambio li decide la Bce a Francoforte, non sono più oggetto di politiche nazionali. E’ rimasta in piedi la dittatura del 3%, il rapporto deficit/Pil è il criterio che può far scattare (se non rispettato) una procedura d’infrazione, trasformare un paese in vigilato speciale, e così lanciare segnali d’allarme ai mercati. Fino a quando, con severe terapie di austerity, il reprobo non rientra nei ranghi. Il 3% è diventato l’unico sacro comandamento nella religione dell’austerity.
Eppure i dubbi su quella cifra furono forti dall’inizio. Uno dei più autorevoli venne dal grande economista italiano Luigi Pasinetti. In un importante saggio pubblicato sul Cambridge Journal of Economics, nel 1998 (un anno prima della nascita dell’euro) Pasinetti attaccò duramente “mito e follìa del 3%”. Non ci andava leggero, parlando di «regno del simbolismo», a proposito di una soglia deficit/ Pil «la cui validità non è mai stata dimostrata». I giudizi di Pasinetti erano implacabili: «Nessuno è mai riuscito a dare una spiegazione plausibile, sul perché quelle cifre furono scelte». Per il 60% di debito/Pil la spiegazione sembrava essere banale: grosso modo era la media europea (e in particolare franco-tedesca) ai tempi in cui veniva negoziato il Trattato di Maastricht. Anche se di lì a poco la riunificazione delle due Germanie avrebbe fatto sballare il rapporto debito/ Pil tedesco… e quella cifra anziché “magica” divenne poco rilevante, fu interpretata subito con tanta flessibilità.
Un tentativo molto più recente di dare fondamento scientifico a quelle cifre, è finito in un clamoroso infortunio: due grandi economisti americani, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhardt, hanno dovuto ammettere di avere sbagliato calcoli elementari, omesso statistiche importanti, in un loro studio che doveva dimostrare il nesso tra crescita e rigore di bilancio. Anche in seguito a quell’incidente, il Fondo monetario ha preso le distanze dall’austerity.
Ma il dibattito non è teorico. La confutazione del dogma è avvenuta nei fatti. Negli Stati Uniti, tanto per cominciare. Nell’abisso della recessione del 2009, non appena arrivato alla Casa Bianca Barack Obama varò una maximanovra di investimenti pubblici. Riscoprì il verbo keynesiano, l’insegnamento appreso dall’Occidente nella Grande Depressione degli anni Trenta. Nel primo biennio della presidenza Obama il deficit/Pil schizzò fino a sfiorare il 12%, il quadruplo del limite ammesso dall’“euro-religione” dell’austerity. E la cura ha funzionato. Sia nel bilancio federale, sia in quelli della finanza locale, i conti pubblici americani oggi migliorano in modo spettacolare: grazie alla ripresa (+3% del Pil, più 8 milioni di posti di lavoro), non all’austerity. Stati come la California, città come New York, sono addirittura alle prese con un dilemma positivo: come usare l’improvviso attivo di bilancio, generato non dai tagli bensì dall’economia che cresce e gonfia le entrate fiscali. In modo simile ha reagito il Giappone, si sta risollevando dalla crisi proprio perché ha fatto l’esatto contrario di quel che prescrive la religione del 3%. In quanto agli esempi di “successi” conseguiti dalla terapia europea, di recente si cita l’Irlanda come il caso di una ammalata che si riprende dopo avere applicato disciplinatamente l’austerity. Ma la pseudo- rinascita irlandese è in parte un’illusione statistica: il mercato del lavoro sembra in migliori condizioni perché una consistente quota della popolazione attiva ha ripreso la strada dell’emigrazione (verso Stati Uniti, Canada, Australia) come nel primo Novecento.
In Italia la religione del 3% ha avuto tanti sostenitori in buona fede, per un’altra ragione. Applicare la disciplina dell’austerity sembra un vincolo esterno salvifico, per impedirci di praticare vizi nazionali distruttivi: spese pubbliche parassitarie, clientelari, fonti di sprechi e corruzione. Ma il dogma del 3% impedisce un altro tipo di risanamento: che passa attraverso una consistente riduzione della pressione fiscale sul lavoro, onde restituire potere d’acquisto alle famiglie e rilanciare la crescita.