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 2014  febbraio 20 Giovedì calendario

DIMMI CHE COS’HAI E TI DIRÒ CHI SEI


Daniel Miller è un antropologo. Per diciassette mesi ha bussato alle porte degli abitanti di una via londinese, ribattezzata Stuart Street, insieme con una sua dottoranda, ed è entrato in dodici case. Voleva capire qual è il volto dell’umanità del nostro tempo. Alla fine ha scritto un libro, Cose che parlano di noi (Il Mulino, pp. 197, € 16) dedicato al modo in cui gli uomini e le donne di quella via si esprimono attraverso le cose che possiedono. Ha cercato di capire la loro relazione con gli oggetti – mobili, dischi, fotografie, giocattoli, orologi, quadri, decorazioni ecc. – e il ruolo che assumono nello scambio tra le persone. Ne ha tratto dodici racconti di vita che, se non sono letteratura, poco ci manca.
Ogni capitolo del libro è uno straordinario ritratto dell’abitante di quella casa visto attraverso le cose che lo circondano. Miller dice di essere un antropologo, ma a lettura terminata non si può fare a meno di pensare che è anche uno psicologo e uno scrittore. Nel primo ritratto, «Vuoto», ci viene incontro George, un settantacinquenne che abita in una casa quasi vuota, priva di mobilio e delle consuete suppellettili che si accumulano nel corso di una vita. Il vuoto di cose e oggetti è perfettamente corrispondente al vuoto interiore di George, di cui Miller racconta la vita trascorsa in gran parte in un pensionato, prima di finire in quelle stanze senza nulla.
Al contrario, la signora Clarke vive nel pieno, che ruota intorno alla celebrazione del Natale con i molti figli che ha avuto dal marito, quando il signor Clarke era vivo e poi dopo la sua scomparsa. Da Elia i due antropologi in visita imparano invece che ci sono tre classi di «oggetti», che sono in movimento costante gli uni con gli altri: le relazioni, le cose e le emozioni. Gli oggetti hanno la prerogativa di accogliere e conservare emozioni cui sono stati associati. Elia, che è una donna molto acuta, versata nella narrazione, vive in stretto rapporto con i suoi parenti morti, la madre e la zia, attraverso gli oggetti, i vestiti in particolare, che conserva e continua a indossare, così da continuare il rapporto con loro. Malcolm è invece un australiano di origine aborigena, un trentenne che vive a Londra in appartamenti in subaffitto, e che continua a muoversi da un capo all’altro del mondo. Tiene le sue cose in casse, e concentra l’attenzione sul computer portatile con le immagini del suo passato, della sua famiglia. Questa è la sua casa, che mantiene in ordine in modo maniacale. Non conserva oggetti materiali. Quelli che ha, li dà via, mentre continua ad applicarsi al pc.
Non c’è un solo capitolo di questo inconsueto libro – ma chi aveva letto Teoria dello shopping di Miller sa che si tratta di un antropologo particolare – che non contenga una storia di vita e un insegnamento fulminante. Scrivendo di George, in poche righe Miller ci fa capire come sia riuscito il fascismo a far presa sulle persone facendole sentire parte di un’immagine più grande, superiore. Raccontando la vita di Stan, un mercenario responsabile di un’esplosione che ha ucciso molte persone ed è tormentato dai loro fantasmi, della sua casa e della sua passione per la pornografia, sa farci capire la genialità dei reality, che superano l’ambiguità tra attore e ruolo, celebrità e vita reale.
Leggendo Cose che parlano di noi si comprende come le persone sedimentino i propri beni materiali, li posino come fondamenta, muri cementati di memoria, per usarli nei momenti in cui devono affrontare l’esperienza della perdita. Si scopre che nelle moderne metropoli come Londra i concetti di società o comunità svolgono un ruolo sempre più ridotto nella vita delle persone. Siamo in presenza di quella che Miller definisce la post-società. Oggi gli uomini non hanno più bisogno di credere nella società, e possono anche non votare più alle elezioni e guardare la politica da distanza. Le scienze sociali nell’ultimo mezzo secolo hanno puntato sull’individuo isolato come alternativa alla società (questo è stato il liberismo), definito dalle sue scelte, che si tratti di merci o di partiti. In Stuart Street Miller ha trovato non individui dediti a sé, bensì persone che si sforzano di creare relazioni sia con gli altri sia con le cose.
Quelli che un tempo erano considerati i compiti dello Stato e della religione, la creazione di un ordine e di una cosmologia, ora sono invece delegati più in basso, agli individui e ai nuclei famigliari. Oggi è la relazione con gli oggetti a essere decisiva. Forse non è un caso che il traduttore del volume di Miller, Emanuele Coccia, pubblichi in contemporanea un interessante libro, Il bene delle cose (il Mulino, pp. 140, € 12). Vi sostiene che è alle cose, più che agli uomini o agli dei, che noi affidiamo quotidianamente la nostra storia, la nostra fortuna, il nostro futuro. In aperta polemica con tutti i pensatori che hanno disprezzato il mondo degli oggetti, compresa la pubblicità (ad esempio, Guy Debord e la sua Società dello spettacolo), Coccia scrive che «è usando e consumando le merci che ciascuno di noi costruisce il proprio mondo e cristallizza l’insieme delle categorie culturali che definiscono il suo essere nel mondo». L’intento di questo libro è di superare la divisione tra le cose e il Bene, che secondo la filosofia classica sarebbe fuori, oltre, al di là delle cose.
Quella di Coccia non è solo un’operazione filosofica che intende restituire agli oggetti la loro importanza: ci aiuta anche a comprendere il grande cambiamento avvenuto nel mondo contemporaneo grazie alla pubblicità, alla merci e alla globalizzazione. La sua è una visione anche politica del presente e soprattutto del futuro. Si spinge infatti a pronosticare che «gli imperi del futuro saranno forse definiti dalla geografia e dalla sovranità mobile delle merci, capaci di creare comunità e identità senza passare per le vie tradizionali della fondazione politica». Una previsione su cui riflettere, perché è sempre più evidente che a causa della enorme importanza assunta dagli oggetti, a partire da quelli tecnologici come il computer e il cellulare, non potremo più restare legati al passato nella costruzione delle nostre identità personali e collettive, come nella realizzazione di forme societarie. Miller e Coccia hanno ragione: niente sarà più come prima.