Valerio Rosa, l’Unità 20/2/2014, 20 febbraio 2014
IL SENSO DI COLPA DEI CANTAUTORI
LUCIANO LIGABUE APRE LA PRIMA SERATA DEL FESTIVAL CON UNA DIMENTICABILE VERSIONE DI «CRÊUZA DE MÄ». Chi grida alla profanazione osserva che, se si fosse esibito alla Corrida, sarebbe stato salutato dalle sirene della polizia e dagli ululati dei cani; i duri e puri spuntano il suo nome dall’elenco dei cantautori che non si sono mai compromessi con Sanremo. Una faccenda che merita di essere approfondita, partendo dall’epoca d’oro del Festival, che fino alla seconda metà degli anni Sessanta raccoglie quanto di meglio la musica popolare italiana sia in grado di proporre.
Una tendenza che si inverte a partire dagli anni Settanta: i nomi storici, con la nobile eccezione di Sergio Endrigo, disertano in massa la manifestazione, ritenuta ormai una passerella delirante e autoreferenziale sempre più staccata dalla realtà musicale e sociale. La nascita dell’altra faccia di Sanremo, il Premio Tenco, destinato al cantautorato di qualità e privo di diretta televisiva, sancisce l’erezione di un manicheissimo Muro di Berlino della canzonetta: di qua l’impegno, di là le melodie sdolcinate Uno steccato ideologico che non vede di buon occhio mescolamenti, contaminazioni, visite di cortesia.
Cambiati i tempi, molti grossi calibri sono andati a collezionare standing ovation all’Ariston in qualità di superospiti, trattati con tutti gli onori e comodamente esentati dalla gara. Non servirà a chiudere il cerchio, ma nella serata di domani Fazio tenterà una conciliazione tra i due mondi (il Festival e il Tenco, del resto, hanno lo stesso padre, Amilcare Rambaldi che creò il secondo per espiare la colpa di avere dato vita il primo, allo stesso modo di Nobel, che ideò il noto premio per scusarsi di avere inventato la dinamite), ma ancora oggi i cantautori sentono la necessità di giustificare a sé stessi e ai propri fans un’eventuale sortita festivaliera. Senza contare che anche gli intransigenti, gli incorruttibili, i selettivi hanno i loro scheletri nell’armadio.
Cominciamo da Fabrizio De André. È suo il testo di Faccia di cane, presentata con un certo successo dai New Trolls nell’edizione del 1985 (in cui esordiscono Eugenio Finardi, Ivan Graziani e Mimmo Locasciulli), ma scrive anche i versi in italiano di Pitzinnos in sa gherra, che vale ai Tazenda l’ottavo posto nel 1992. Ivano Fossati, come Dalla, Battisti, Zucchero e Vasco Rossi, «nasce» artisticamente a Sanremo: nel 1972 è il leader dei Delirium, che fanno il pieno di consensi con l’ipnotica Jesahel, negli anni seguenti scriverà Un’emozione da poco per Anna Oxa. E non finisce mica il cielo per Mia Martini e Le notti di maggio per Fiorella Mannoia. Proprio a Fossati è legata la più clamorosa occasione mancata dal Festival: la commissione selezionatrice dell’edizione del 1973 scarta lui, Dalla e Venditti, rinunciando all’ultima occasione per imprimere una svolta alla rassegna.
Quell’anno c’è però il giovane Roberto Vecchioni, che si fa notare con L’uomo che si gioca il cielo a dadi e, sotto pseudonimo, anche come tutore della demenziale Sugli sugli bane bane. Abbiamo citato Venditti: nel 1994 contribuisce al rilancio di Michele Zarrillo firmando Cinque giorni. Il suo ex sodale Francesco De Gregori ha qualcosa di più grave da farsi perdonare: nel 1980 scrive con Ron l’efferata Mariù, in cui Dalla suona il sassofono, per l’amico Gianni Morandi. La critica non resta particolarmente colpita da versi come «vorrei una sveglia magica tutta per me che canta, che mi lava i denti e mi prepara il caffè», «e poi vorrei una barca a vela che si chiami Mariù, così domenica ti chiedo se ci vieni anche tu».
Franco Battiato nel 2011 va in gara insieme all’amico Luca Madonia, nel 1981 vince come autore di Per Elisa, nel 1983 gli va male con Oppio, scritta per la meteora Sibilla. Paolo Conte, persino lui: nel 1969 scrive Le belle donne per Robertino e Rocky Roberts, nel 1971 la più conosciuta Santo Antonio, Santo Francisco per Piero Focaccia e i Mungo Jerry.
Ma ce n’è anche per Mauro Pagani, che ha definito «orrende» le edizioni degli anni Ottanta. Nel 1988 va in gara nel supergruppo «I figli di Bubba», che comprende anche Franz Di Cioccio, Roberto Manfredi, i comici Enzo Braschi e Sergio Vastano e due giornalisti. In gara, lo ripetiamo, proprio come Toto Cutugno e Mino Reitano. Ne rimane solo uno, tra i grandissimi, e sicuramente non ci avrà perso il sonno: Francesco Guccini. Chapeau.