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 2014  febbraio 18 Martedì calendario

VIA POMA IL VERDETTO FINALE NON SCIOGLIERA’ L’ULTIMO MISTERO


Roma, febbraio
Si torna a parlare in un’aula di giustizia dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa con 29 colpi di tagliacarte il 7 agosto del 1990 in uno stabile di via Poma, a Roma. E davanti ai giudici tornerà il prossimo 26 febbraio Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta, condannato nel gennaio del 2011 a 24 anni di carcere per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e assolto “per non aver commesso il fatto” dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma il 27 aprile del 2012.
La decisione spetta ora alla prima sezione penale di piazza Cavour, la stessa sezione che ha già giudicato Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, e Alberto Stasi per il delitto di Chiara Poggi, avvenuto a Garlasco, ribaltando entrambi i verdetti di assoluzione. Secondo molti, però, su via Poma e sulla sorte di Busco, non dovrebbero esserci dubbi. I giudici di Cassazione infatti si ritroveranno a valutare una sentenza d’appello che nelle sue motivazioni ha azzerato tutto ciò che i consulenti della procura avevano fatto nel giudizio di primo grado. Le perizie? Contraddittorie. E mai una testimonianza decisiva. L’unica che avrebbe potuto far luce su questo delitto non è mai arrivata. Perché Pietrino Vanacore, l’ex portiere di via Poma, il 9 marzo del 2010, tre giorni prima di deporre davanti alla Corte di Assise di Roma, si è lasciato affogare nelle acque di Torre Ovo, in meno di un metro d’acqua, a pochi chilometri da Monacizzo, un piccolo centro in provincia di Taranto dove si era trasferito con la moglie Giuseppa De Luca nel 1995, cercando, disperatamente, pace e oblìo.
QUELL’URLO: «ODDIO, ODDIO»
«Mio padre non si è suicidato. Non ci credo. E l’ho anche detto quando sono stato sentito». Mario Vanacore è il figlio dell’ex portiere di via Poma. E c’era anche lui quel 7 agosto del 1990. «Ero arrivato quel giorno con mia moglie Donatella e mia figlia di pochi mesi, per una breve sosta a Roma, da mio padre, prima di proseguire a Sud, per le vacanze. Verso sera, bussarono alla guardiola per chiederci di andare nell’ufficio degli ostelli. Dissero che forse c’era una ragazza che si era sentita male». In via Poma, quella sera, a cercare Simonetta, arrivarono la sorella, Paola Cesaroni, il fidanzato di lei, Antonello Barone, e il datore di lavoro della ragazza, Salvatore Volponi, col figlio Luca.
«Giuseppa, la mia matrigna, prese le chiavi dell’appartamento al terzo piano. Rimasi fuori, sulle scale. Volponi entrò e diede un’occhiata in due stanze. Poi tornò indietro dicendo non c’è nessuno. Non credo avesse acceso la luce… La mia matrigna lo invitò a rientrare e a cercare ancora, nelle altre stanze. Volponi uscì poco dopo urlando “Oddio, oddio! Bastardo”. E allora entrammo tutti».
«SO CHE INFERNO STA VIVENDO»
Suo padre si è suicidato tre giorni prima di testimoniare nel processo contro Busco, e avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere... «Non credo che l’avrebbe fatto. Papà era tormentato per Busco. Diceva: “So che inferno sta vivendo, lo so”. Mio padre non si è suicidato, non sarebbe mai andato via senza salutare i suoi figli. Senza lasciarci un biglietto, una lettera di addio». Pietrino Vanacore sapeva dell’inferno di Raniero Busco, perché in quelle fiamme ci era finito anche lui, vent’anni prima. Pochi giorni dopo l’omicidio, il 10 agosto del 1990, fu fermato con l’accusa di aver ucciso Simonetta. Restò in carcere quasi un mese, poi fu rilasciato. Ripiombò nell’inchiesta tre anni dopo, con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Federico Valle, nipote di un inquilino di via Poma. Il 30 gennaio del 1995 la Cassazione confermò la decisione di non rinviarli a giudizio. Infine, nel 2007, quando una nuova perizia indicò in Raniero Busco il nuovo indagato, e mentre tutta l’attenzione era concentrata sull’ex fidanzato della ragazza, gli stessi magistrati che indicavano in Busco il presunto colpevole aprirono un fascicolo di indagine, parallelo e riservato, per cercare nuove prove sul portiere di via Poma. Oggi rivelò per primo la notizia di Vanacore ancora indagato per omicidio volontario. «Ricordo che arrivò nel mio studio dopo le nuove indagini aperte sul suo conto», raconta l’avvocato Franz Pesare, noto penalista pugliese. «In quell’occasione mi disse della vicenda che lo aveva coinvolto, dei 26 giorni di carcere mai risarciti e di quella nuova indagine. Era stravolto, annientato». Ma perché allora suicidarsi tre anni dopo, quando era stato già sollevato da ogni accusa, quando sul banco degli imputati c’era un altro presunto colpevole?
«Lo avevo visto pochi giorni prima», ricorda Giuseppe Turco, medico dell’ex portiere. «Mi raccontò della convocazione a Roma, per il processo. Che sarebbe andato col figlio e con la moglie. Non mi chiese un certificato, che pure avrei potuto fare, visto il suo stato fisico, per posticipare la testimonianza». A Roma, Vanacore, ci voleva andare. «Non si è ucciso. Al paese non sono solo io a pensarlo. Pietrino l’hanno affogato», dice Mario Miccoli, pescatore e amico d’infanzia di Vanacore. Il fascicolo sulla morte dell’ex portiere, con l’ipotesi di reato di “aiuto o istigazione al suicidio” è stato chiuso l’8 marzo 2011. L’inchiesta ha stabilito che Vanacore si uccise di sua spontanea volontà. Il perché resta un mistero. E nell’inferno è rimasto solo Raniero Busco.