Enrica Brocardo, Vanity Fair 19/2/2014, 19 febbraio 2014
QUALCUNO TI PUÒ GIUDICARE
[Valeria Golino]
«QUI SI RIUNISCE QUELLA CHE CHIAMIAMO la giuria dei “piccoli”».
Valeria Golino mi fa entrare nella stanza dell’hotel dove lei e gli altri giurati discutono le opere prime presentate nelle varie sezioni del Festival del cinema di Berlino.
Giudicare un debutto sembra una responsabilità ancora più grande.
«Lo è. Anche perché il premio è un vero premio: 50 mila euro».
Abbastanza per cominciare un secondo film?
«Eccome. Per esempio, puoi pagare i debiti che hai fatto per finanziarti il debutto. Quando realizzi un primo film, l’obiettivo non è guadagnare, ma non rimetterci troppo».
A lei piacciono i premi?
«A Cannes, speravo tanto di vincere la Caméra d’Or con Miele, ed ero molto stizzita di non avercela fatta. Ma, per fortuna, i premi non vinti te li dimentichi subito».
E quelli vinti?
«Sei più contento per i tuoi cari, gli amici, i parenti, che per te stesso».
Miele, l’opera prima di Valeria Golino, l’anno scorso ha ricevuto la menzione speciale della giuria al Festival di Cannes. Ma, soprattutto, è stato venduto all’estero, fatto raro per un film italiano. Unico (finora) per un debutto diretto da un’attrice italiana già unica di suo: dieci anni a Hollywood su quasi trent’anni di carriera.
Chissà quanti amici avrà ritrovato qui a Berlino.
«Sa qual è il problema di essere nella giuria di un festival? Sei isolato. Mi sono resa conto che un po’ di attori che conosco erano qui perché ho visto le loro foto esposte in giro. Essere nella giuria è una grande opportunità, per gli incontri, gli stimoli, ma può essere faticoso. Non è bello dover giudicare: metti che un film lo vedi al mattino piuttosto che alle dieci di sera, o che quel giorno sei nervoso per motivi tuoi. Gli “umori privati”, purtroppo, passano».
Lei fa parte anche dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Come la vede per il film di Sorrentino, La grande bellezza?
«Tifo per il film, per lui che è un amico, e per l’Italia».
Tra gli attori e i registi dei film candidati agli Oscar le sarà capitato spesso che ci fossero degli amici. Come si fa a essere imparziali?
«Nell’industria del cinema ci si conosce tutti, e non si dimentichi che può succedere anche l’opposto, di dover giudicare il film di qualcuno che ti è antipatico o di cui sei geloso, perché ne invidi la bravura o la bellezza, o perché ritieni che abbia più successo di quanto meriti. Tutti quei bassi sentimenti che si provano comunemente nella vita sociale. Dire “a me non succede” sarebbe come dire “non faccio mai la pipì”. Il punto è come reagisci. Se una persona che non mi piace ha fatto un bel film non riesco a fare a meno di dirlo».
Novità sul suo prossimo film da regista?
«L’unica novità è che non c’è. Magari fossi come Fellini che non sapeva che film fare e se ne venne fuori con 8 1/2. Io non so che film fare e me ne sto qui paralizzata a bere caffè».
Con Miele come andò?
«Comprai i diritti del libro (Vi perdono, scritto da Mauro Covacich sotto lo pseudonimo di Angela Del Fabbro, ndr) con l’idea di interpretare la protagonista. È una grande parte, il mio primo istinto da attrice è stato: lo voglio fare io. Ma in quel periodo stavo montando il mio cortometraggio (Armandino e il Madre del 2010, ndr), e la voglia di dirigere un film era nell’aria. Nel giro di poco ho capito che avrei voluto essere la regista».
Perché non tutt’e due?
«Ero troppo vecchia. L’autore mi disse: “Fallo tu”, ma io sentivo che doveva essere una donna non ancora del tutto adulta. Se lo avessi interpretato io sarebbe stato un film più grave: una persona della mia età che fa quel “lavoro” (aiutare i malati terminali a suicidarsi, ndr) avrebbe dato un peso esistenziale diverso alla storia. E poi volevo innamorarmi di quella donna. E anche se mi piace che gli altri mi trovino affascinante, fatico ad avere quel tipo di sguardo per me stessa».
Quando uscirà il suo nuovo film, diretto da Gabriele Salvatores, su un bambino che ha il superpotere dell’invisibilità?
«In autunno. Gabriele mi ha spiegato che tre, quattro mesi serviranno solo per gli effetti speciali che sono quasi in ogni scena».
Com’è stato lavorare di nuovo con lui a vent’anni da Puerto Escondido?
«Lo sa che Salvatores non ha mai lavorato con la stessa attrice due volte? Gli interpreti maschili tornano sempre, le donne mai. Io sono la prima e finora l’unica. Chissà come mai».
Non glielo ha chiesto?
«No. Preferisco tenermi questo privilegio immaginando di essere la sua preferita».
Ricordi del primo film insieme?
«Era un periodo molto bello della mia vita, allegro. Tre anni dopo Rain Man, avevo tanti progetti, vivevo a Los Angeles, mi ero appena fidanzata con Fabrizio Bentivoglio, eravamo molto innamorati. Venne a trovarmi mentre giravamo in Messico e Gabriele inventò lì per lì una scena per lui, sull’autobus con Diego Abatantuono: era un certo Mario che aveva mal d’orecchio. L’idea nacque dal fatto che male ce l’aveva davvero».
Le manca Los Angeles?
«Solo quando sono lì e ritrovo quella sensazione strana di libertà che mi ha dato e che, forse, si prova quando sei molto lontano da casa».
Immagino non rimpianga di aver lasciato Hollywood, visto che lo ha deciso lei.
«Rimpianto è una parola che non mi appartiene anche perché io dimentico, rimuovo, forse è un meccanismo di protezione. “Rimpiango” solo di avere fatto scelte sbagliate nell’andarmene: vendere la casa di Los Angeles, non prendere il passaporto americano. Piccole cose che, però, fanno parte dell’organizzazione della vita. In quel momento della giovinezza in cui tutto mi veniva dato, io sono stata sciatta, noncurante».
Non «rimpiange» nemmeno i soldi che poteva guadagnare? Oggi le tornerebbero utili per fare film in Italia.
«Come i soldi che ho guadagnato allora e che non ho messo da parte».
Come li ha spesi?
«Male. Senza accorgermene».
Dove si trova l’idea per un film?
«Intanto nei momenti in cui non sei saturo di cose, eventi. Si trova nello svuotamento del continuo rappresentarsi. Per il resto leggo molto. In questo periodo con atteggiamento da “predatore”, alla ricerca di idee».
La prossima volta potrebbe essere una storia che viene da lei?
«Non riuscirei a fare la fiction di me stessa come fanno molti colleghi o registi anche bravi. Però, sì, penso che potrei inventare una storia. Di idee ne ho tante».
Di che tipo?
«Storie commerciali, commedie romantiche, roba che non fa per me. Io ho bisogno di storie che mi mettano in crisi, altrimenti non trovo l’entusiasmo per lavorarci su per anni, trascorrere notti insonni».
Sogna spesso il lavoro?
«Passo da sogni di inadeguatezza – devo salire sul palco ma non ricordo la parte, devo suonare ma non so la musica – a sogni di vanagloria totale. Sintomo di una presuntuosa insoddisfazione, che rispecchia quello che sono. Peccato non sia mai stata in analisi. Il mio psicoanalista si divertirebbe molto. In realtà, è a quello che punterei, vorrei che mi dicesse: “La prego, torni domani”. È questa la mia vera nevrosi: pur di piacergli direi un sacco di bugie».