Luca Dini, Vanity Fair 19/2/2014, 19 febbraio 2014
ADDIO, TORTA DI PANE
Luciana Littizzetto
è una donna elegante.
Ancora più in borghese
che «vestita da Tv».
Quando la incontro – nell’atelier dove è stato allestito il set, in un palazzo di archeologia industriale, un pomeriggio buio, mentre fuori l’ultima neve di gennaio imbianca la sua Torino – mi colpisce subito per il gusto contemporaneo, dalla semplicità ingannevole. Maxi cardigan grigio antracite, comodi pantaloni neri, stivali tipo Ugg con la zeppa: «Sono una donna, gli abiti piacciono anche a me, ma in quello stile un po’ giapponese, monacale, rigoroso. Sono talmente eccessiva in quello che dico, come parlo, che devo avere una base sobria, se no divento un baraccone».
Luciana Littizzetto
è l’esatto contrario
della stronza.
Forse per associazione a Fabio Fazio e Che tempo che fa e Saviano e tutto quel mondo che ai più cinici e prevenuti e invidiosi di noi giornalisti piace guardare con diffidenza e ridurre a parole come «politicamente corretto» e «birignao», mi è capitato di sentirla descrivere – da gente che, ovviamente, non l’ha mai neppure incontrata – come una «finta simpatica». Invece è simpatica autentica, gentilissima, non risponde allo stereotipo del comico depresso, e si capisce che è una che, anche nella vita, ride e fa ridere. Io la trovo spassosa quando, per prendere in giro qualcuno che dice qualcosa di ridicolo, fa quella sua vocina acuta e impostata. Tipo: «Ho fatto tanta gavetta. Ma dove? Dillo che l’hai data via a chiunque te l’abbia chiesta, e magari gliel’hai data due volte, la seconda per sicurezza». Al posto del corsivo, immaginatevi quella voce, e la boccuccia che la accompagna. Ancora: «No, non ho fatto niente, solo punturine di vitamine. Sono le vitamine che ti hanno fatto venire le labbra a canotto? E gli zigomi come l’antifurto con le palle? Abbi il coraggio, dillo: sono rifatta, evviva!».
Luciana Littizzetto
è bella.
E non soltanto su questa copertina, non soltanto sotto i Gucci che sfoggia sul palco di Sanremo. «Ci sono donne molto belle che hanno parecchie potenzialità ma faticano a usarle perché sono classificate come belle e basta. E altre che invece sono tipo me, e poi incontro Vanity Fair e vuole farmi particolarmente figa e io dico: ma io non sono quella roba lì, non sono figa. E invece tu sei anche figa, hai la tua femminilità. È una cosa – come dire? – liquida».
Luciana Littizzetto
è una donna
che ama le donne.
E non dimentica quanto è stato difficile per lei, in quanto donna, passare dal mestiere «da donna» che faceva prima, la professoressa, a quello che fa oggi, la comica. «Perché per far ridere devi essere esagerata, e certe cose, in bocca a una donna, hanno sempre dato fastidio».
La violenza contro le donne, dice, si combatterebbe con una legge più efficace. «Ho seguito un caso, lei denunciava ma non succedeva niente, le dicevano: per intervenire deve esserci un episodio grave, ci vuole un TSO, quando viene attaccata chiami l’ambulanza. Sì, certo, quello ti picchia e tu dici: aspetta che ho chiamato l’ambulanza». Ma si combatte anche ogni giorno, con l’educazione. A suo figlio Jordan, 16 anni, ha detto che «non c’è margine, uno schiaffo se parli di una donna in modo non rispettoso, punto e basta».
E poi c’è la sopraffazione più sottile che troppe donne subiscono nel mondo del lavoro. «In questo momento difficile ci sono trentenni, trentacinquenni che hanno perso il lavoro e non lo ritrovano perché non sono considerate, perché prima o poi faranno un figlio. L’Inps paga eppure, chissà perché, la maternità continua a essere un problema. Ed è vero che se sei in azienda sei tutelata, ma quando torni non hai più il lavoro di prima. Bisognerebbe sgravare dietro il boccione dell’acqua, dietro la fotocopiatrice, accovacciate come le pellerossa, e poi subito tornare a lavorare. Come la Hunziker che certo è bionica, ma avrà anche chi la aiuta, no? Dove sono gli asili nido? Dove sono i part time?».
La fa arrabbiare che, a parità di talento e di mansioni, una donna continui a essere pagata meno. «E poi, se una donna è incapace, è difficile che riesca a tenersi il posto. Se incapace è l’uomo, invece, arrabattandosi – truc e branca, come diciamo noi piemontesi – magari ce la fa anche. Qualcuno ha detto che, quando ci sarà una donna incapace in un posto di comando, avremo raggiunto la parità. Ma noi non vogliamo la parità, vogliamo semplicemente un riconoscimento».
Luciana Littizzetto
è una donna
che ama gli uomini.
Su Fabio Fazio, «anche se a volte lo sgozzerei», ha parole così affettuose che sembrerebbero zuccherose se non fossero evidentemente vere.
Alcuni uomini li ama meno. Quello che ha paragonato il ministro Kyenge a un orango, per esempio: «Le parole pesano, io non voglio un politico peggiore di me, voglio che tu sia migliore di me». O il marito del ministro Kyenge, che l’ha attaccata a mezzo stampa perché fatica a stare con una moglie più importante di lui: «In molte coppie è un problema, nella mia no» (su questo, vedi sotto).
Le donne, ribadisce, non devono essere uguali agli uomini. «Guardi Hollande: gli uomini di potere hanno il pallino del sesso, la donna di potere a cinquant’anni non vede l’ora di liberarsi degli uomini, la gelateria a quell’età è aperta solo d’estate, non c’è una grande attività. Il toy boy, il ragazzo oggetto, non ci interessa».
Solidarizza con la donna scaricata per una più giovane, vedi Valérie. «Certo è bizzarro il ricovero per corna: dovrebbero esserci i pronto soccorso pieni. Quel dolore lì l’abbiamo conosciuto tutte, io tre volte. Perdonerei se succedesse di nuovo? Non lo so. Le altre volte non ho perdonato, con il compagno attuale fortunatamente non è successo».
Lui si chiama Davide, fa il batterista, «è la mia roccia», vive senza problemi il fatto di avere una compagna più famosa. «Era un conoscente, mi piaceva, lo trovavo figo, pensavo: non mi guarda. Poi ha avuto dei casini di salute e ho giocato la carta che spesso giocano le donne, mi sono proposta come crocerossina. A me viene bene, la sindrome ce l’ho, sono una che assiste, che accudisce». Sono passati diciassette anni, Luciana e Davide stanno sempre insieme. «Senza sposarci perché quel passo lì non mi appartiene. Trovo assurdo dire “per sempre”, dico “per il momento”. Per il momento è lui, ma come faccio a sapere che sarà sempre così? Non sono mica in Beautiful».
Luciana Littizzetto
è una mamma
«più di cuore che di utero»
(definizione sua).
Ci vuole cuore per fare quello che ha fatto lei, otto anni fa, quando si è portata a casa, in affido, Jordan con la sorella Vanessa, oggi diciannovenne.
«Ammiro Gianna Nannini, ma la sua strada non è la mia: non ho mai avvertito questa necessità della maternità biologica. Neanche di avere in casa un bambino piccolo. Anzi: mi ero già avvicinata alla comunità dove stavano loro due, l’idea era proprio di prendermi cura di ragazzi più grandi. Per me era una cosa sociale. Ma mi sono scontrata con la verità che non è solo una cosa sociale, perché i bambini quando arrivano a casa vogliono la mamma, e piangono, e hanno la febbre.
«L’inizio è stato da panico perché pensavo: devo compensarli di quello che non hanno avuto, devo essere una mamma perfetta. Primo, niente parolacce. Poi, interrogatorio a tutte le mamme che incontro. Tu che cosa fai? Io faccio la torta di pane. Allora compro il Bimby e faccio la torta di pane: una merda mostruosa. E quando hanno la febbre che cosa fai? Ah, io bagni freddi. No, cortisone subito. No, calzini bagnati con l’aceto. E io tutte e tre le cose insieme, una roba da sclerare.
«Finalmente, un giorno, ho fatto uno switch leggerissimo ma fondamentale. Faccio quello che posso, faccio la mamma come sono io, che sono diversa dall’impiegata o dalla vigilessa, perché faccio la cretina di professione. Ho smesso di fare la torta di pane. Li porterò a vedere una mostra, gli racconterò di un libro bellissimo che ho letto, e magari compriamo le scatole Cameo e la torta la facciamo insieme.
«Diffido profondamente del genere io sono multitasking, faccio tutto benissimo. Non puoi avere ottantadue figli, cinquantacinque dipendenti, ciupare come un riccio, essere figa dalla mattina alla sera: ti droghi oppure non è vero, e io voto per il non è vero, perché una cosa la fai sicuramente meno bene delle altre. Devi scendere a compromessi.
«I ragazzi a questa età richiedono quasi più tempo ed energia di prima. Ho voluto fortissimamente l’esperienza dell’affido, mi spendo in prima persona in questa scommessa. Me la sto giocando, non so se la vincerò. Del resto, si vince mai completamente? Si fanno piccole conquiste, si semina. Tu dici: cresceranno dei tulipani, e poi crescono dei narcisi e pensi: minchia, io volevo dei tulipani, però poi guardi i narcisi e dici: sai che tutto sommato sono belli così?
«Forse per via dell’origine Rom, i miei hanno in certe modalità un senso di libertà, di chissenefrega quasi, che io non ho. O magari è solo che alla loro età è normale essere così, e io l’ho dimenticato. Vanessa è più tranquilla, e molto tradizionale: già fidanzata, pensa al matrimonio, ai figli, insomma il contrario di me, rischio di diventare nonna a breve. Jordan vuole molto bene alla sua fidanzatina, per il resto è un pistola di sedici anni. Controllo su WhatsApp se sta studiando o se è collegato, allora la merda ha tolto la funzione che mostra “ultimo collegamento”, e io: rimettila immediatamente!
«Sono abbastanza severa. Se fa una cazzata c’è il sequestro del telefonino, e se sta lì a smanettare mentre gli parlo c’è anche il lancio, di cui sono un’esperta ultimamente: il povero telefonino ha le righe che sembra un wafer. Forse esagero anche, però magari un po’ di fiato sul collo aiuta. Niente dormire dalla fidanzata, niente tornare alle tre di mattina. E lui: sono solo io il cretino che torna a mezzanotte, le altre mamme sono molto più buone di te. Una volta ha avuto il coraggio di dire: in che famiglia sono finito...».
Luciana Littizzetto
ha fatto una scelta
coraggiosa. Anzi, due.
L’affido è, in principio, una soluzione temporanea, con la spada di Damocle di una famiglia biologica che c’è, che ha diritto di vedere regolarmente il figlio e che – se vengono meno le condizioni che hanno determinato l’affido – se lo può «riprendere». Nel caso specifico la madre biologica, avendo perso la patria potestà, non poteva accampare diritti. È stata Luciana a volere che i contatti ci fossero.
«Devi avere una gran forza, la trovi nella consapevolezza che stai rendendo loro un gran servizio, gli dai ossigeno, li togli da una situazione complessa. Ma soprattutto all’inizio è destabilizzante, molto più difficile di quello che ti aspetti. Nel loro caso, legalmente non erano richiesti i contatti con la famiglia. Ma, umanamente, quel pezzo di passato esiste, e io ho insistito perché ce lo facessero stare, perché è una parte di te, e se cerchi di rimuoverlo poi è difficile da gestire. Io posso ascoltarti, ma non posso dirti come, perché non ci sono passata. So solo che prima o poi ci devi fare i conti, e perdonare».
C’è sullo sfondo per Luciana, in parallelo alla preoccupazione per i suoi genitori che sono anziani, il pensiero dei figli che, una volta maggiorenni, possono decidere di interrompere l’affido, «anche se Vanessa ha deciso di rimanere in famiglia, e rimarrà fino a quando lo vorrà». C’è il sorriso all’idea di essere chiamata, un giorno, mamma: «Mi chiamano Lu. La cosa buffa è che, se non ci sono, dicono “mia madre”. Io non ho mai insistito, pazienza, è una cosa che deve venire da loro. Però mi farebbe piacere, sì».
E c’è, all’orizzonte, un progetto ancora più generoso. «Un’esperienza che mi piacerebbe fare: l’affido dei neonati, i bambini piccoli piccoli che, in attesa di andare in adozione, hanno bisogno di cure e accoglienza in questo momento di passaggio. Dev’essere difficile, perché ti affezioni, le pretese crescono dentro. È un esercizio di amore gratuito. Vorrei provare».
Luciana Littizzetto
ha imparato
che cosa deve fare
quando non sta bene.
«Come canta Elisa, l’anima vola, le basta solo un po’ d’aria nuova. Basta ritagliarsi uno spazio, un progetto. Basta un libro, un film, una persona. Quello che manca è il tempo. Bisogna proteggerlo, il tempo buono, il tempo facile, anche con i figli. Che non è mettersi in cattedra: vieni con me che ti spiego la vita. No, vieni con me a fare la spesa. Posso anche non parlare, oggi sono stanca, abbi pazienza. Oppure: senti che figa questa canzone. Oppure: facciamo una piadina? Quelle robe lì, facili, le cose che poi ti rimangono addosso, che ti fanno stare bene. Ho detto tante cazzate, eh?».
Luciana Littizzetto
non dice cazzate.