Giuseppe Videtti, la Repubblica 19/2/2014, 19 febbraio 2014
CHE CAOS – [TRA INCIDENTI, PROTESTE E SIPARIETTI FUORI ONDA IL FAZIO-LITTIZZETTO BIS DIMENTICA LA MUSICA]
Dramma della disperazione ieri sera all’Ariston, a pochi minuti dall’apertura del Festival, con un sipario capriccioso che non veniva giù. Due operai dei Consorzi del bacino di Napoli e Caserta pericolosamente in bilico sui tralicci della galleria minacciano di buttarsi giù se Fabio Fabio non leggerà la loro lettera. Panico. Il presentatore, nel mezzo di un monologo sulla bellezza, fa del suo meglio per scongiurare la tragedia. «Dobbiamo comprendere la disperazione », dice con in mano i fogli lanciati dai due lavoratori disperati. Tenta, lucido, di sfruttare l’imprevisto, farne tesoro nel suo discorso sull’Italia ferita: «La bellezza non è lusso ma pane quotidiano». Non ha la prontezza di sottolineare che se all’uomo togli la dignità non è la bellezza la sua priorità ma la sopravvivenza. Gli viene in soccorso il compleanno di Fabrizio De André. «L’artista che ha raccontato gli ultimi», dice rimettendo la palla dello spettacolo al centro.
Tocca a Ligabue aprire la serata con una riedizione di “Crêuza de mä” trent’anni dopo, mentre dietro le quinte il team di Fazio concerta in fretta e furia come rientrare il sintonia con l’atmosfera festivaliera. La musica di Faber, miracolosamente, non stona con la protesta dei lavoratori (due di ottocento) che da mesi non ricevono lo stipendio; le parole vergate a mano nella lettera che Fazio legge dopo l’esecuzione raccontano anche di tre lavoratori che si sono tolti la vita. «Io non c’entro con quelli che vogliono suicidarsi », gli grida Grillo dalla platea durante la prima pausa pubblicitaria. «Ormai ti hanno superato», ribatte il presentatore. Poi lo blandisce: «Non puoi immaginare quanto mi faccia piacere (che tu sia qui)». E quello lo provoca: «Parlami in diretta (se ne hai il coraggio)».
Purtroppo la gara non è il magico colpo di spugna che cancella la tensione; le proposte dei big sono meno affilate dell’anno scorso (l’assenza di Elio e le Storie Tese è palpabile); il varietà le strangola, il confronto con l’inno “Father and son” di Yusuf Cat Stevens, accolto da una affettuosissima standing ovation, le fa impallidire. Solo il talking-blues di Cristiano De André sul triste destino degli “invisibili” sembra adeguato allo spirito della serata. Inzeppato di ospiti e di temi, tirato per le lunghe, stressato dalla contingenza e dall’incubo di non essere all’altezza del precedente in termini d’ascolto, esageratamente autocelebrativo (oltre ai sessant’anni della tv e a una Carrà da gay pride che invoca la liberazione dei due marò anche i quindici anni dalla prima apparizione della Casta all’Ariston, neanche fosse la Madonna), il Festival faticosamente recupera il ritmo ma trascura le canzoni.
È stata una breve illusione. Sanremo per un anno era tornato a essere l’isola felice della musica, tranquillo, sereno, rilassato, creativo. E pure miracolato da ascolti record. Invece eccolo di nuovo nel pallone, inquinato dalla politica, sovraccaricato da responsabilità più grandi della sua pur imponente portata mediatica. Così malinconicamente si ribaudizza e si rintana nell’amarcord. L’ingresso carico di piume e di lustrini di Lucianina e l’interminabile sketch nel quale Fazio fa il cascamorto con la Casta sembrano fuori posto; la realtà che strangola il paese brutalizza il varietà.
Stasera sono di scena gli altri sette big in gara, ma l’attesa è tutta per l’esibizione del cantautore gay Rufus Wainwright preso di mira dalle associazioni cattoliche, paladine di un pontefice che non ha bisogno di armi spuntate. Dov’erano quando Povia intonò all’Ariston quell’osceno ritornello («Luca era gay / E adesso sta con lei») che bollava l’omosessualità come un vizietto di gioventù?