Paolo Berizzi, la Repubblica 19/2/2014, 19 febbraio 2014
QUANDO I CLANDESTINI SIAMO NOI
Friggono hamburger nei locali di New York. Fanno i commessi e i camerieri a Toronto. Aspettano che il tempo se li dimentichi mentre sbarcano il lunario negli ortsteil di Berlino e nei pub di Londra (ma qui è più facile: c’è la libera circolazione). Volano di sola andata a Rio de Janeiro, a Buenos Aires, a Sydney e a Melbourne: e anche l’Australia li adotta a sua insaputa. Come si fa con chi viene a sgobbare e, in cambio, chiede solo di stare nell’ombra. Gli ultimi, in ordine di tempo, sbarcano in Angola: si inabissano, imparano il portoghese e diventano braccia per le compagnie petrolifere e di trasporto con basi nelle province di Luanda.
Chi li ha visti? Da dove vengono? Come si chiamano? Sono gli italiani clandestini. I “nostri” emigrati fantasma. L’altra metà di una luna che a volte, troppo spesso, vediamo scura. Sono almeno 500 mila, una città più grande di Bologna o Firenze. Hanno tra i 18 e i 45 anni. Freschi di laurea o appiedati dal lavoro. Lasciano l’Italia e si stabiliscono in un altro Paese. Ma vivono da irregolari. Senza più un permesso di soggiorno (nel caso la meta non faccia parte dell’Unione europea). Senza cittadinanza. Senza pagare le tasse e senza diritti. Col rischio di essere rimandati a casa ma con l’unica prospettiva di avere trovato un posto dove vivere meglio, o meno peggio, che in Italia. Come Salvatore che ha 45 anni. «Nel 2006 parto da Napoli con alle spalle un passato difficile. Arrivo nel Queens a New York, cameriere in nero, sposo un’italiana regolare, nascono due figli e adesso devo — per forza — tornare a Napoli, tra mille incertezze». O come Manuel e Emanuele, coppia gay romana. Cinque anni trascorsi “in silenzio” a Rio De Janeiro dove vendono bracciali a cottimo: vorrebbero sposarsi. «In Brasile si può, il problema è che prima dovremmo metterci in regola e non ci conviene. Siamo venuti perché in Italia non avevamo niente. Qui abbiamo qualcosa, e per ora facciamo che va bene così». La geografia, le rotte “silenziose”. Stati Uniti (in assoluto i più gettonati), Canada, Argentina, Brasile, Australia, Regno Unito, Germania. Adesso anche alcuni Stati dell’Africa: su tutti Mozambico e Angola.
La clandestinità degli italiani è un fenomeno ancora sconosciuto in Italia — dice Gaetano Calà, direttore nazionale dell’Anfe (Associazione nazionale famiglie emigrati) — . Se ne parla solo tra pochi addetti ai lavori. Nell’opinione pubblica ci sono schemi mentali radicati e diffusi per cui la gente stenta a credere che esistano italiani clandestini. Il fatto stesso che non se ne parli alimenta il fenomeno, favorisce la sua riproduzione ». In che modo? «Il silenzio invoglia l’italiano che emigra a cadere nella clandestinità, si lascia andare, sottovalutando le difficoltà e i rischi che questo status comporta». Molti sono neo laureati che non trovano spazio in Italia. Ma ci sono anche meno giovani, gente che viene dalle professioni, che è rimasta senza stipendio e decide di giocarsi tutto lontano da casa. «Quelli che arrivano a New York sono per la maggior parte ragazzi in cerca di sbocchi professionali — spiega il professor Anthony Tamburri, preside dell’istituto Calandra che promuove la storia della cultura degli italiani d’America — . Arrivano come turisti e, dopo 90 giorni, scaduto il permesso, rimangono e trovano lavoro nero. Magari guadagnano anche bene, non pagano tasse, prendono buone mance nei ristoranti. Per 3-4 anni riescono a vivere più che dignitosamente. Ma il rischio, oltre alla legge, è che quando poi devono tornare in Italia si trovano in difficoltà. C’è un buco di 4 anni in cui non hanno fatto nulla...».
C’è un buco, forse, anche nei numeri. Calcolare con esattezza quanti siano i nostri connazionali che diventano invisibili oltre confine, è difficilissimo. Omertà, resistenze, convenienze da parte delle lobby (i padroncini della ristorazione, degli alberghi, del commercio per i quali gli irregolari sono ovunque una risorsa, soprattutto perché si adattano a salari “ribassati”, anche al di sotto del minimo federale americano di 7,25 dollari l’ora). Ma sarebbero almeno 500 mila — secondo stime ufficiose tarate sulle proiezioni di associazioni, ong, fonti diplomatiche, istituti e studi legali specializzati in diritto dell’immigrazione sondati da Repubblica — gli italiani “irregolari” nel mondo. Un numero da considerarsi per difetto. Perché tiene conto delle sole situazioni “conclamate”. Quegli immigrati che, per periodo di permanenza, vanno considerati ospiti, diciamo “non più temporanei”.
È un mondo curioso quello della clandestinità italiana. Non sovrapponibile a quello delle “altre” immigrazioni, quelle con cui, tra dibattiti sullo ius soli, integrazione, intolleranza, ipocrisie, ci misuriamo da una trentina d’anni. È anche un segreto di pulcinella di cui l’Italia parla poco e malvolentieri. Bisogna dunque vederlo dall’altra parte dell’oceano, o degli oceani. Letizia Airos vive da anni nella Grande Mela dove dirige il magazine i- Italy/ NY. «Anche i clandestini italiani, come tutti i clandestini, si coprono tra di loro. I giovani vanno e vengono con questi visti da tre mesi. C’è una rete di favori, di connivenze, di documenti. Una zona “di mezzo” sulla quale si appoggia l’attività di molti esercizi commerciali. Penso soprattutto a ristoranti e fast food».
Tra i 200 e i 250 mila. Tanti sarebbero gli italiani versione “ghost” che sono riusciti a stabilirsi, provvisoriamente, negli Stati Uniti. New York è il rifugio preferito. Ad accendere le speranze (o forse velati timori), è stato il sindaco Bill De Blasio: «Nessun residente di New York deve essere costretto a vivere nell’ombra. A tutti i miei cittadini che sono degli immigrati senza documenti dico: questa città è casa vostra». Il sindaco ha promesso carte di identità municipali, già sperimentate finora a San Francisco, sull’altra costa. Sono un primo passo «per la partecipazione alla vita civica», ma non sono la Green Card (permesso di residenza permanente). Una roba ben diversa. «Le leggi americane non rendono la vita facile agli immigrati — spiega l’avvocato italo-newyorkese Annalisa Liuzzo, legale di centinaia di decine di immigrati italiani — . O trovi un contratto di lavoro con un’azienza o ti giochi la carta dello studio. Che ha costi elevati». E così ci si arrangia come si può. «Negli anni ‘90 sono stato clandestino per 5 anni a New York — ricorda Giovanni, siciliano, oggi vive alle Hawaii—. Ogni tre mesi uscivo dagli Stati Uniti, passavo il confine, andavo alle Barbados o in Canada. Poi rientravo. Ogni volta era uno stress, rischiavo di essere bloccato. Dopo un po’ quel sistema non puoi più usarlo. Così ricorrevo ad altri stratagemmi: smarrimenti di passaporto, tre volte, e poi un aggancio con un operatore aeroportuale... ».
Così fanno molti. Lo sa il governo americano. Lo sa il governo italiano. Perché se è vero che non ci sono ancora censimenti elaborati dall’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero) né dati ufficiali raccolti dai nostri istituti diplomatici e consolari, è anche vero che la clandestinità italiana è un fenomeno ben noto a Roma. Messo nero su bianco su un resoconto stenografico del 22 febbraio 2012. I vertici dell’Anfe ne hanno riferito in un’audizione al Senato della Repubblica — comitato per le questioni degli italiani all’estero. «Riceviamo dati e indicazioni per noi molto preoccupanti — dice ancora Gaetano Calà — . Basti pensare che nel 2011, solo tra Queens e Brooklyn, e cioè due quartieri di Ny, si stimava una popolazione italiana irregolare di 3mila persone». Da un continente all’altro. Angola, Africa centrale, espansione economica. Qui gli italiani, tra residenti e pendolari, sono “solo” 800. «C’è una forte ondata di interesse — dice dalla capitale Luanda l’ambasciatore Giuseppe Mistretta — . Arrivano giovani neolaureati, ma anche professionisti. Molti hanno già in mano contratti, altri trovano opportunità qui. Clandestini? Non ne abbiamo notizia — aggiunge il diplomatico — . Forse è una tendenza ancora agli albori... ».