Federico Fubini, la Repubblica 19/2/2014, 19 febbraio 2014
DRAGHI VORREBBE IL BIS DI SACCOMANNI
È DA quando l’Europa è scivolata nella grande recessione che le mosse della Bce e quelle dell’Italia si incrociano in un rapporto bipolare. Quando l’Italia sbanda o allenta la presa sui conti pubblici, la Banca centrale europea si irrigidisce. Quando invece l’Italia contraddice la sua fama di mina vagante del continente, l’Eurotower reagisce nel senso opposto: fa qualcosa che finisce per togliere dai guai anche il governo di Roma.
È SUCCESSO in passato, rischia di accadere di nuovo con Matteo Renzi a Palazzo Chigi.
Comunque si risolva la crisi di governo, a Francoforte gli sviluppi sono seguiti con attenzione giorno per giorno. I banchieri centrali europei non avevano messo in conto un cambio della guardia a Palazzo Chigi proprio ora e l’inevitabile dose di incertezza che porta con sé sta provocando in privato commenti preoccupati. Non solo, ma anche, da parte del presidente Mario Draghi.
All’Eurotower tutti ricordano la lezione dell’inverno 2011-2012, anche se quella attuale è una stagione diversa. Ieri lo spread fra Bund tedeschi e Btp italiani a dieci anni era sotto i 190 punti-base, allora aveva toccato i 574. Allora, poco più di due anni fa, Mario Draghi passava dal suo ufficio di governatore della Banca d’Italia alla presidenza dell’Eurotower in un momento che non poteva essere più difficile per lui. L’euro era in gioco e la minaccia più grande alla moneta era proprio il Paese che aveva appena espresso il presidente della Bce. I titoli italiani a un anno rendevano più dell’8%, segno che gli investitori si aspettavano un default imminente. L’Eurotower interveniva comprando titoli italiani, ma senza convinzione. Draghi non poteva permettersi di debuttare a Francoforte dando l’impressione di favorire il suo Paese: sarebbe stata la fine precoce della sua credibilità.
Allora successe qualcosa: cambio di governo e di linea a Roma. Esce Silvio Berlusconi, entra Mario Monti. A quel punto la Bce ha le spalle coperte e si sblocca: immette sul mercato mille miliardi lordi di liquidità straordinaria che aiutano l’Italia a riemergere dagli inferi.
Oggi tutto è diverso, naturalmente. Draghi stesso in privato esprime dubbi sull’opportunità dei nomi che circolano per il posto di ministro dell’Economia. È vero che non ne critica nessuno in particolare e certo non quello di Pier Carlo Padoan, sul quale in queste ore si lavora molto. Del resto non è la stima personale e professionale di Draghi verso i possibili candidati a mancare. Quella c’è in pieno. È che il presidente della Bce, benché si guardi bene dall’esercitare pressioni anche private, nel posto di ministro dell’Economia preferirebbe una sola persona. Colui che lo è già: Fabrizio Saccomanni.
Draghi lo preferisce a qualunque altra ipotesi appunto perché oggi tutto è diverso rispetto al 2011, meno un dettaglio: la minaccia a Eurolandia ora è sedata, non scomparsa. La Bce ha bisogno di un’Italia affidabile, perché sa che dovrà intervenire nei mesi prossimi per contrastare la nuova forma che la crisi ha preso: quella di una deflazione in grado di corrodere l’economia del Sud Europa e rendere insostenibili i debiti pubblici e privati. A gennaio l’inflazione media dell’area euro era di appena lo 0,7%, in Italia dello 0,6%. Spagna, Portogallo e Irlanda sono a un soffio da un avvitamento dei prezzi, Grecia e Cipro ci sono cadute già in pieno. Con tassi reali elevati per effetto dell’inflazione bassissima, lo spread a 190 punti-base di oggi pesa sull’Italia come se fosse sopra i 300 punti-base con un carovita normale. Per questo il debito pubblico continua pericolosamente a salire malgrado il calo apparente degli interessi. E per questo la Bce studia misure non ortodosse — e malviste in Germania — per stoppare la discesa verso la deflazione nei prossimi mesi.
Qui s’innesta la crisi di governo a Roma, che rischia di complicare tutto. Se infatti l’Italia di Matteo Renzi scegliesse di ignorare le regole europee dovrebbe farlo contro il parere di Bruxelles. Ieri Olli Rehn, commissario Ue agli Affari monetari, ha ricordato che non è d’accordo: se l’Italia violasse il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil, ha detto, «il debito salirebbe ancora e questo certo non aiuta la competitività ».
Draghi ha un timore, confidato a pochissimi: nel caso in cui l’Italia va fuori linea, non appena lui proporrà nuove misure espansive da parte della Bce verrà accusato di farlo solo per aiutare il proprio Paese. Questa è la ricetta della paralisi. Come nel 2011-2012, Draghi può sostenere il Sud Europa e l’Italia solo se l’Italia stessa non diventa un caso in Europa. Può farlo solo se il suo Paese d’origine non viene considerato dagli altri una minaccia alla stabilità propria e di tutti.
Saccomanni lo sa e anche ieri a Bruxelles ha ricordato che il limite del 3% di deficit va rispettato «perché è in gioco la reputazione». Quanto a Draghi, lui si astiene dal dire come la pensa perché non è questo il suo ruolo e comunque sarebbe controproducente. Gli basta e avanza la complessità del puzzle europeo. Ora con un pezzo in più finito fuori posto.