Barry Eichengreen, Il Sole 24 Ore 19/2/2014, 19 febbraio 2014
DIAMO ALLA FED LE COLPE CHE SI MERITA
La Federal Reserve americana è nel mirino delle critiche per la recente esplosione di instabilità nei mercati emergenti. Ma se fosse solo un comodo capro espiatorio?
È più facile scaricare sulla Fed la responsabilità degli attuali problemi economici globali che dare la colpa al rallentamento cinese, che riflette i lodevoli sforzi delle autorità di Pechino per riportare in equilibrio l’economia nazionale. Anche l’Abenomics giapponese, avendo provocato una svalutazione dello yen, ha complicato la vita ai responsabili delle politiche economiche dei Paesi vicini, ma questo non toglie che l’iniziativa del governo di Tokyo sia uno sforzo meritorio per mettere finalmente termine alla deflazione. Perciò, anche in questo caso, è più facile dare la colpa alla Fed.
E per le economie emergenti in difficoltà è sicuramente più facile scaricare la responsabilità sul tapering (la decisione della Banca centrale Usa di ridurre gli acquisiti di attività a lungo termine), che incolpare la loro incapacità di procedere più speditamente sul versante delle riforme economiche.
Tutto questo non significa che la Fed sia esente da colpe. La prospettiva di tassi di interesse più alti negli Stati Uniti riduce gli incentivi per gli investitori a riversare capitali in modo indiscriminato su tutte le economie emergenti. A far inceppare il treno delle economie emergenti è stata una convergenza di fattori, ma la decisione della Fed è di sicuro uno di questi fattori.
Lascia sorpresi che la Fed non abbia fatto alcuno sforzo per tener conto dell’impatto delle sue decisioni sulle economie emergenti, o delle ripercussioni negative delle difficoltà di queste ultime per gli Stati Uniti stessi.
I mercati emergenti rappresentano più di un terzo del Pil globale e negli ultimi anni hanno garantito ben più di un terzo della crescita globale complessiva. Quello che succede nei mercati emergenti non resta confinato lì, ma può ripercuotersi (sempre di più) anche sugli Stati Uniti.
Eppure i funzionari della Fed, prodighi di commenti riguardo alle ragioni per cui hanno deciso di tirare il freno sulle politiche di allentamento quantitativo, non hanno detto nulla sull’impatto di questa decisione per i mercati emergenti, né sembrano rendersi conto che la politica monetaria degli Stati Uniti può influenzare ciò che avviene al di fuori del loro ristretto angolo di mondo.
Il silenzio è tanto più sorprendente alla luce di altri due recenti sviluppi, a Washington. Il primo è che il Congresso degli Stati Uniti, nel quadro del recente accordo sul bilancio, ha rifiutato di autorizzare l’aumento delle quota di sottoscrizione del Fondo monetario internazionale. L’impegno finanziario era sostanzialmente simbolico, ma si inseriva nel contesto di un accordo più generale raggiunto al vertice di Seul dai leader del G20 per regolarizzare le risorse dell’Fmi e dare più rappresentanza alle economie emergenti.
Questo affossamento dell’accordo riapre vecchie ferite e solleva inquietanti interrogativi sulla legittimità di un’istituzione dominata, per l’ombra lunga della storia, da una manciata di Paesi avanzati. Le autorità dei mercati emergenti sono sempre più riluttanti a chiedere la consulenza e l’assistenza del Fondo, e questo compromette la capacità dell’organizzazione di giocare un ruolo realmente globale.
L’altro sviluppo è la decisione di rendere permanenti gli accordi di swap in dollari introdotti durante la crisi finanziaria dalla Fed, dalla Bce e dalle Banche centrali di Canada, Regno Unito, Svizzera e Giappone. Secondo questi accordi, la Fed è pronta a fornire dollari a queste cinque Banche centrali estere: è un riconoscimento del ruolo unico della moneta statunitense sui mercati finanziari internazionali. Dal momento che le banche internazionali, a prescindere dalla nazione di appartenenza, tendono a indebitarsi in dollari, questi accordi consentono alle Banche centrali estere di prestare dollari alle loro banche nei momenti di emergenza.
Mettete insieme questi tre eventi – il tapering della Fed, il siluramento della riforma dell’Fmi e il consolidamento degli accordi di swap – e avrete un’America che rinazionalizza la funzione di prestatore internazionale di ultima istanza: per dirla in parole semplici, la Fed è l’unica fonte di liquidità in dollari di emergenza ancora in piedi.
Ma gli Stati Uniti si offrono di fornire dollari solo a pochi privilegiati. E nelle loro dichiarazioni e azioni di politica economica rifiutano di riconoscere una responsabilità più generale per la stabilità dell’economia mondiale.
Che cosa dovrebbe fare di diverso la Fed? Innanzitutto dovrebbe negoziare immediatamente linee di swap in dollari permanenti con Paesi come la Corea del Sud, il Cile, il Messico, l’India e il Brasile. Il secondo luogo dovrebbe correggere la sua retorica, e se necessario le sue politiche, tenendo conto del fatto che le proprie azioni esercitano un’influenza sproporzionata su altri Paesi, con ripercussioni per l’economia americana. Potrebbe significare dover rallentare il ritmo del tapering? Sì, potrebbe. La Banca centrale Usa forse esita ad aggiungere altre linee di swap perché così facendo si esporrebbe a perdite su valute estere. Forse teme anche di irritare quei Paesi che rimarrebbero esclusi; e forse teme di esporsi agli attacchi del Congresso per aver travalicato i limiti del suo mandato, se dovesse riconoscere, con le parole e con i fatti, le proprie responsabilità globali.
Se le autorità statunitensi sono preoccupate di tutto questo, la loro unica opzione è ratificare gli incrementi delle quote per l’Fmi, per fare in modo che la responsabilità della stabilità finanziaria internazionale torni dove è più consono, e cioè nelle mani di un’organizzazione internazionale legittima.
(Traduzione di Fabio Galimberti)