Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 19 Mercoledì calendario

A QUEL TEMPO NON ESISTEVA L’AUTORITÀ PER LA PRIVACY MA NESSUNO SAPEVA CHI FOSSERO LE SIGNORE DANESE O CHIAVARELLI


In principio tv e giornali si sono avventati sulla smart blu di Ernesto Carbone («l’auto ha tredici anni. Accelera a fatica, poi parte di colpo») a bordo della quale Matteo Renzi si era trasferito da Palazzo Chigi alla sede del Pd. Poi hanno rivolto la loro attenzione sulla Giulietta bianca a noleggio con la quale il candidato premier di è recato al Quirinale per ricevere l’incarico. Nel frattempo, gli inviati si precipitavano a Firenze per intervistare Agnese Landini (la consorte di Matteuccio superstar) che continuerà («per il momento») a vivere a casa sua (dove il marito la raggiungerà nei week end, come capita a tutti i pendolari di lunga gittata) e dare la caccia ad Antonio Salvi (74 anni, nato a Caserta), il barbiere che ha tagliato progressivamente il ciuffo al sindaco, mano a mano che le sue ambizioni politiche crescevano.
Tornano alla mente i bei tempi che furono, quando nessuno era in grado di riconoscere per strada la signora Livia Danese (l’unico pettegolezzo su di lei lo raccontò il marito Giulio Andreotti quando confessò a Maurizio Costanzo di averle fatto la dichiarazione fra le tombe di un cimitero). E il volto di Eleonora Chiavarelli divenne popolare soltanto quando il marito, Aldo Moro, fu sequestrato (e poi ucciso) dalle Brigate Rosse. Non esisteva allora il Garante per la privacy, né alcuna legge che difendesse il diritto alla riservatezza dei parenti (o dei barbieri) dei protagonisti della scena politica. Non occorrevano tutele particolari semplicemente perché la stampa era meno invasiva (diciamo: più educata) e più rispettosa della vita privata.
È lecito provare nostalgia per quei tempi, o si devono sciogliere inni o declamare strambotti dedicati alla conquistata libertà di stampa dei giorni nostri? La civiltà della comunicazione ha favorito l’assuefazione del pubblico alle nuove regole del gioco, anticipate da Humphrey Bogart (nel film del 1952 L’ultima minaccia) con la celebre battuta: «È la stampa, bellezza. E non ci puoi fare nulla». La stessa implacabile voracità è testimoniata dalla pubblicazione costante di intercettazioni telefoniche e ambientali che (persino quando la magistratura non riscontra illeciti penali) mettono in piazza gli sfoghi (spesso censurabili) di questo o quel politico. 0, ancora, è rappresentata dagli scherzi telefonici, come quello combinato l’altro ieri dalla trasmissione radiofonica La zanzara che ha messo in imbarazzo Fabrizio Barca che ha confidato a un finto Nichi Vendola di aver ricevuto pressioni dall’editore di Repubblica per accettare il ministero dell’Economia nel governo Renzi, e che ha certamente provato imbarazzo per i giudizi sferzanti riservati al programma del presidente del Consiglio incaricato («È una cosa priva di idee: c’è un tale livello diavventurismo, non c’è un’idea, siamo agli slogan_»). È vero che siamo in pieno Carnevale, ma certi scherzi sono fuori le righe. Ma è anche vero che i politici dovrebbero aver imparato a misurare le parole, nella consapevolezza di essere ascoltati da orecchie indiscrete, o di essere «uccellati» (per usare un vocabolo boccaccesco) da qualche buontempone in carca di ingenui disposti a cascarci. E lui c’è cascato. Un Barca che è naufragato.