Stefano Mannucci, Il Tempo 19/2/2014, 19 febbraio 2014
IL FESTIVAL COME REALITY DI UN PAESE CHE SCOPPIA
SANREMO A pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca, diceva il buonanima. E allora, non c’entrerà nulla, non dovremmo neanche pensarlo. Ma se riascoltiamo al replay quello che ha detto Grillo infilandosi all’Ariston dieci minuti prima della diretta, come minimo possiamo dargli una mezza patente di veggente: «Io fare casino in platea? Non sono mica Cavallo Pazzo». No, certo, però che deja vu perfettamente in linea con il comizio di Topo Galileo: la Rai degli sprechi milionari e la gente che muore di fame. E - non pensiamo male - ma non è ancora partita la sigla e la presa dell’Ariston è già compiuta: non da Beppe, ma dai due lavoratori che minacciano di buttarsi giù dalla balaustra. Come ai tempi di Pippo: e anche qui la disperazione pare vera, incontestabile, profonda. Fabio era entrato in scena appena prima, già stranito da un sipario che sembrava non volersi alzare al momento giusto, mentre lui, a sala spenta, attaccava il pistolotto sull’Italia della Bellezza. Immagine fissa del treno di Andora ancora in bilico sopra il Mar Ligure per via della frana (si era rinunciato alle riprese filmate perché nel frattempo le Ferrovie avevano rimosso due vagoni) e via con la suggestione di un Paese ferito e malato che tutti insieme potremmo e dovremmo risanare, eccetera. E a quel punto, a spezzare l’enfasi del proemio, si odono grida provenire da un punto imprecisato del teatro. Grillo, pensano tutti gli italiani: macché, eccoli lì, due lavoratori in bilico sulla balconata delle luci. Maglietta bianca, la minaccia di buttarsi giù, la richiesta di leggere un foglio di spiegazioni. Nessuno vorrebbe essere al posto di Fazio: che diversamente da Pippo non si arrampica sul sottotetto, ma decide di giocarsi la carta della ragionevolezza dal basso, promettendo di divulgare al Paese il testo del foglio lanciato. Si rischia una disgrazia, ma alla fine ce la si cava nel migliore dei modi: si tratta di due lavoratori senza stipendio da 16 mesi del Consorzio di Bacino di Napoli e Caserta, 800 disoccupati, tre suicidi, situazione grama. Domanda: come sono arrivati fin lì? Di certo, qualcuno li avrà procurati i costosi biglietti. E la sicurezza in teatro? Quella che ti controlla il pass anche dopo averti visto mille volte? Impossibile non ipotizzare che c’entri Grillo. Infatti, alla prima pausa pubblicitaria, dopo l’omaggio in genovese di Ligabue e Mauro Pagani a Faber De Andrè con «Creuza de ma», Beppe lo urla a Fazio: «Io non c’entro con quei due che volevano suicidarsi». Piccola vendetta del conduttore: «Ti ci metti pure tu? Ormai ti hanno superato. Ma non sai quanto mi faccia piacere (averti qui)». Grillo lo incalza: «Parlami in diretta», e a questo punto Fabietto nicchia: «Ora però fatemi fare il Festival, altrimenti diventa Ballarò». Al collegamento con il Tg1, Fazio (che avevano dipinto come terrorizzato dall’eventualità che qualche cecchino grillino gli tirasse uova sul palco) aveva già replicato a distanza al comiziante: «Sono qui per proteggere tutti quelli che lavorano a questo programma. Costruire è più difficile che distruggere». Poi la pace in armi nel fuori onda, tra sospetti ed excusatio non petita. Caso chiuso? Chissà. Come sia, Grillo lascia il teatro dopo un’ora di show, forse annoiato o forse perché in ogni caso la missione è compiuta. E se ogni Sanremo vive di imprevisti ma su questi alimenta lo share, beh, non si vede in cos’altro si potrebbe sperare. L’incursione delle mogli dei marò (ci penserà finalmente la Carrà, tosta e spavalda, a lanciare l’appello per i due soldati), i proclami en plein air di Grillo, e la pazziata dei due lavoratori a macchina appena accesa. Una summa perfetta di cosa è davvero il Festival: una pentola a pressione dove il simil-reality del Paese pare sempre sul punto di scoppiare, con gli italiani sul divano come al Colosseo a gridare «fateci vedere il peggio di ciò che siamo». Se il tema di quest’anno è la Grande Bellezza nazionale, il risultato è meglio del film di Sorrentino. Tutto grottesco, surreale, allucinato, più grande del vero. Le canzoni sono solo una colonna sonora variamente declinata. Chi apre le danze è Arisa. Se la gioca da sophisticated lady, ma siccome ha un cognome da scherzo di caserma, si becca la scontata celia della Littizzetto: «La miglior Pippa di sempre». La giuria mista della sala stampa e del televoto boccia il bolero scrittole da Cristina Donà e promuove il più arioso «Controvento». Quanto a Frankie Hi-Nrg, che di cognome fa Di Gesù, anche lui intasca la battuta di Lucianina: «Lo voterà il Papa». Tra le due, passa l’orecchiabile soft-rap di «Pedala», foto di un’Italia con ingranaggi da sincronizzare. I primi sette big si succedono, da Antonella Ruggiero (passa l’eterea «Da lontano») a Raphael Gualazzi con Bloody Beetroots (viva la follia dance-gospel di «Liberi o no») da Cristiano De Andrè (che emoziona con «Il cielo è vuoto», ma meritava anche «Invisibili») dai Perturbazione (sopravvive la maliziosa «L’unica») fino a Giusy Ferreri, che prosegue con «Ti porto a cena con me». A far scendere la temperatura contribuisce un desolante Fazio nei panni di un esistenzialista francese invaghito di Laetitia Casta: lei spara «Ma ’ndo Hawaii» a tutta gamba, reggendo il confronto con Monica Vitti, mentre Fabietto non vale un tacco di Albertone, quando si tratta di avanspettacolo. E neppure quando mette il trench di Jannacci. Quando è il momento di celebrare la formidabile Carrà con «Rumore» e «Fatalità» Zia Maria già ronfa. Peccato, perché è proprio Raffa, che non la manda a dire a nessuno, a lanciare l’appello che tutta Italia attende sulla liberazione dei due marò, mentre il tremebondo Fazio continua a tacere. E quando spunta un immenso Yusuf Cat Stevens, con le sue meraviglie folk pop «Peace Train» e «Father and son» (e un medley da standing ovation dove incanta con la beatlesiana «All you need is love»), sembra passato già un mese da quei primi momenti di panico all’Ariston.
Stefano Mannucci