Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 19/2/ 2014, 19 febbraio 2014
NARDELLA: I POTERI COSTITUITI TEMONO IL LEADER PD SI SENTONO IN PERICOLO PERCHÉ ROMPE I RITUALI
Dario Nardella, il governo Renzi non nasce da un voto ma da un’operazione di Palazzo. Questo lo indebolisce fin dall’inizio, non crede?
«Matteo ancora una volta ha scelto con altruismo la strada più rischiosa. Sono stato testimone della sua crescita in questi anni, e posso assicurarle che ha sempre fatto così. Oggi Renzi subisce un danno di immagine, ma evita il danno massimo per il Paese: l’ingovernabilità. In questi giorni è venuto un drammatico appello dal mondo delle imprese e dei lavoratori. Non ci chiedevano di andare a votare. Ci chiedono cambiamento e discontinuità».
Non siete stati ingenerosi con Enrico Letta?
«Letta ha rappresentato bene l’Italia all’estero. Ma non è riuscito a mettere in campo il coraggio indispensabile per rompere quel grumo fatto di burocrazia, corporazioni, poteri costituiti che da anni non permette all’Italia di tirar fuori le sue energie migliori».
Sta dicendo che l’establishment deve temere l’arrivo di Renzi?
«Esatto. E non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro».
Un barbaro?
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo».
A chi si riferisce? Banche, sindacati, finanza, Rai?
«Mi riferisco a un insieme di mondi, anche all’apparenza in contrasto tra loro, che sono sopravvissuti in questo clima di lento declino, accontentandosi di mantenere posizioni dominanti, e oggi percepiscono lo stile, i contenuti, il messaggio di Renzi come qualcosa di estraneo. Matteo è un vero leader popolare. Un leader di popolo come da tanti anni non se ne vedono in Italia, e per questo capace di penetrare quella cortina di poteri costituiti, per comunicare direttamente con i cittadini. Renzi è visto come elemento destabilizzante; e dal loro punto di vista lo è. Proprio per questo rappresenta una grande opportunità per l’Italia per vivere un nuovo Rinascimento, se vogliamo usare un termine che appartiene alla storia di Firenze».
Non le pare un’espressione enfatica? Si può rifare l’Italia in tre mesi?
«Le parole di Renzi non vanno fraintese. Non sono soltanto un segnale di velocità e prontezza. Annunciando una riforma al mese, il nuovo premier ha dimostrato di avere una visione. Quando collochi al centro il progresso culturale del Paese, come ha fatto da sindaco e da segretario Pd; quando con proposte dirompenti metti in discussione i modelli di rappresentanza sindacale; quando prendi di petto riforme rimaste per anni sulla carta, come l’abolizione del bicameralismo, vuol dire che ti muovi in una prospettiva di medio e lungo periodo».
Crede davvero che il governo durerà fino al 2018?
«Il rinnovato vigore di un esecutivo a guida Renzi può dare più stabilità alla politica. I Medici amavano dire: “Festina lente”. Sii tempestivo, ma con giudizio».
Quando avremo il governo?
«Non sta a me dirlo. Nei tempi più rapidi possibile, senza sacrificare la qualità dell’esecutivo alla velocità».
Lei è stato il primo a dire che all’Economia ci vuole un politico. Perché?
«Perché l’era dei “tecnici a prescindere” è ormai alle nostre spalle, e ha dimostrato purtroppo di non aver corrisposto alle attese. L’Italia è uno strano Paese: i politici scaricano sui tecnici le proprie responsabilità. È sbagliato affidare la spending review a un tecnico, per quanto capace. Non esiste scelta più politica che decidere quali voci di spesa pubblica tagliare. E il problema non riguarda solo i ministri, ma i ministeri».
Si riferisce all’alta burocrazia?
«Sì. Noi dobbiamo riformare radicalmente la burocrazia dello Stato, a partire dai vertici. Troppe volte nei corridoi si sente dire: “I ministri passano, i tecnici restano”. Dobbiamo aggredire l’iper-regolamentazione e le concentrazioni di potere e di privilegi, stipendi compresi. Basta decreti milleproroghe, specchio di un’Italia che getta sempre la palla in tribuna. Spezziamo la spirale drammatica di una burocrazia che di fronte a un problema, invece di risolverlo, inventa l’ennesima norma».
Delrio potrebbe fare il ministro dell’Economia?
«Non ci troverei nulla di strano. Anzi, ritengo che i sindaci oggi siano la migliore espressione della politica italiana; non fosse altro perché conoscono meglio di tutti l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società reale continua a crescere».
Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia?
«Per certi aspetti, sì. La questione ci obbliga a una riflessione più generale dell’Europa. Il problema della distanza tra politica e società civile è ancora più vistoso sullo scenario europeo. Per questo sono preoccupato per le prossime elezioni di maggio».
Teme per il Pd?
«Più che per il Pd, temo per le famiglie tradizionali della politica europea, che hanno consentito a tecnocrazia e finanza di sconfinare dai propri ambiti di competenza, e ora rischiano di perdere il polso delle loro comunità».
In Rai cosa farete?
«La Rai merita una rivoluzione. La politica deve occuparsene non per cambiare qualche direttore, ma per stabilire in modo chiaro quale servizio pubblico radiotelevisivo si deve fare. Dopo capiremo chi serve per gestirlo. Sono certo che Renzi affronterà radicalmente anche questo tema. Facendo quel che si dice da sempre e non si fa mai: fuori i partiti dalla Rai».
La riforma elettorale andrà avanti?
«La prospettiva di una legislatura che prosegue ci dà un po’ di tranquillità. Ma la legge elettorale e le riforme costituzionali restano una priorità».
L’Italicum si può cambiare?
«Si può migliorare, mantenendo lo schema di Renzi: le regole del gioco si scrivono anche con le opposizioni».
Non teme una scissione nel Pd? La sinistra interna sarà leale con Renzi?
«Penso proprio che non ci saranno scissioni. Il Pd deve dar seguito a una decisione di cui è stato protagonista, senza sacrificare la discussione interna. Anche se la parola partito non mi piace. Forse non abbiamo colto appieno la novità del congresso in cui il partito socialista europeo cambierà il nome, per diventare il partito dei socialisti e dei democratici. Stiamo vivendo un cambio epocale del modo di fare politica. Ci sono nuove forme di partecipazione che non possono essere racchiuse nella forma tradizionale del partito dello scorso secolo. Prendiamo esempio da movimenti emergenti come i 5 Stelle. I tempi sono maturi per chiamarci solo “Democratici”, senza la parola “partito”».