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 2014  febbraio 19 Mercoledì calendario

VINCENZO PIPINO IL LADRO FILOSOFO


L’ho incontrato nella “sua” Venezia, in una giornata di sole. Mi aspettava in fondo alla scalinata di Santa Lucia in giubbotto rosso, come da accordi telefonici. Occhi vivaci in un volto da Anthony Hopkins, grande sorriso, passo deciso tra le calli: «Il cielo di Venezia ha tutte le sfumature del blu», ha esordito. «Per questo ho sempre avuto sette divise da lavoro in diverse gradazioni d’azzurro, da indossare a seconda del tempo. Credevi mica che i ladri si vestissero di nero, come nei film? Per essere invisibili sui tetti bisogna confondersi con il cielo. E il cielo non è mai completamente buio». Vincenzo Pipino 70 anni, veneziano doc a suo modo è una leggenda. Amante dell’arte, è noto per il furto del Canaletto in casa Falk; per essere stato l’unico nella storia a violare il Palazzo Ducale di Venezia; per aver svaligiato ville, musei (la galleria privata di Peggy Guggenheim ben due volte) e gioiellerie di mezza Europa senza mai devastare gli ambienti o far del male a qualcuno. E restituendo spesso al mittente la refurtiva, rigorosamente intatta, «dietro compenso per le spese di trasporto».
Lo chiamano “il ladro filosofo”, perché ha una sua etica: «Ho rubato solo a chi aveva già rubato prima di me, come i ricchi o le banche. E non ho mai toccato valori affettivi, tipo catenine, fedi, cornici preziose intorno a foto di persone care. Ma non mi vengano a dire che anche ai brillanti da trenta carati ci si affeziona: quelli hanno un valore commerciale. E aggiungo che, se non si è capaci di difenderli, non li si apprezza neanche tanto».
Durante cinque ore di chiacchierata, in un bar sul Canal Grande, Pipino ha ricevuto sette telefonate: una proveniva dal Comando dei Carabinieri e gli annunciava l’arrivo di una notifica. Le altre sei erano di conoscenti che gli chiedevano denaro. Con qualcuno è stato gentile, con altri ha brontolato un po’. A tutti ha detto «si».
«Ecco perché, nonostante le tonnellate d’oro, i rubini, gli smeraldi, le opere d’arte, alla fine tra le mani mi è rimasto un affettuoso, intimo nulla. Ma la mia è stata una vita splendida, perché ho donato».
Vincenzo Pipino non è un santo né un Robin Hood. Quando è fuori dal carcere dove finora ha scontato 25 anni, a più riprese – grazie ai suoi furti vive «come un ricco», tra viaggi esotici e hotel prestigiosi, indossando Rolex, scarpe Prada, maglioni di cashmere. La «povera gente», però, l’ha sempre aiutata.
«Anni fa, io e la mia “batteria” (la banda, ndr) abbiamo prelevato una collezione di visoni selvaggi di Fendi. Ognuno valeva almeno 50 milioni di lire. Ne aveva appena acquistato uno Sophia Loren, gli altri sono finiti alle nostre donne perché potessero competere con le contesse in piazza San Marco. Uno spettacolo, si guardavano tutte in cagnesco. Però le nobili avevano un vantaggio, le borsette di coccodrillo: siamo andati subito a Firenze, a visitare la famosa pelletteria Geronico». Per entrare, niente di meglio del bava, che in veneziano sta per “buco”.
«Bastano una trivella a mano e un ombrello, se si decide di passare dal soffitto, da aprire al momento opportuno per raccogliere i calcinacci prima che cadano a terra». Lo stile de I soliti ignoti, insomma... «In effetti, sono l’ultimo dei neorealisti».
In 60 anni di carriera, fra migliaia di colpi riusciti, diversi gli “imprevisti”. Come quella volta in Svizzera, quando una vecchietta insonne ha segnalato alla polizia strani movimenti nella gioielleria di fronte. Pipino è finito nella Prison du Bois-Mermet, dalla quale stava quasi per scappare (grazie a una penna biro usata come chiave, e il grasso del brodo come lubrificante), prima d’essere trasferito alla Maison de Sécurité élevée de la Plaine de l’Orbe: era il ‘74. Da qui sarebbe riuscito a evadere per davvero, la notte di Natale, tagliando le sbarre della cella con un seghetto, calandosi dal tetto e scavalcando il cancello di otto metri, mentre i cani-poliziotto giravano in tondo nel penitenziario, fiutando gli abiti che Pipino aveva scambiato con un detenuto il giorno prima.
Nel 2013 il ladro gentiluomo è stato di nuovo in carcere («donare carte di credito è semplicissimo»). Pochi giorni dopo il nostro incontro si è costituito a Rebibbia. Gli hanno dato 11 anni per traffico di droga. Un reato gravissimo, di cui si dichiara innocente. Quindi sarà in carcere mentre uscirà, il mese prossimo, il suo secondo libro (dopo il romanzo autobiografico Rubare ai ricchi non è peccato): I coppi di Venezia (Milieu Edizioni).
Non stupisce che di recente alcuni produttori di Hollywood abbiano contattato Pipino: la sua vita è stata un film fin dal principio. Nato in una famiglia poverissima, a sei anni è stato espulso dalle scuole di tutta Italia per aver dato uno spintone al compagno (ricco) che gli rifiutava persino il torsolo della mela. A sette anni faceva il garzone alle pompe funebri. A otto ha iniziato a “prelevare” barili di latte per i genitori e i vicini di casa. A quattordici – mentre con gli amici s’infilava sotto le cabine del Lido di Venezia, a spiare attrici come la Lollobrigida che si mettevano in bikini – aveva «gli occhi fuori dalle orbite», ma la mente lucida: l’idea di rubare il portafoglio a un americano vistoso gli è fruttato qualcosa come 100 mila euro attuali. Poi è venuta l’era dei “palchi” – le arrampicate notturne nelle camere d’albergo, d’estate, quando ancora l’aria condizionata non c’era e gli ospiti tenevano le finestre aperte – , di cui è rimasto vittima perfino Cary Grant Finché Pipino e la sua batteria si sono specializzati nella tecnica del bava.
Nell’ambiente oggi è noto come “l’avvocato”, grazie alla competenza giuridica che ha acquisito via via e che mette a disposizione dei carcerati. Ma il suo soprannome storico è “zio d’America”. «Era un sabato di tanti anni fa. Stavamo lavorando in un appartamento, quando ci siamo accorti d’un bambino piccolo, con gli occhi sbarrati, nel suo letto. I genitori erano a teatro e la baby sitter era uscita. Mi sono avvicinato piano piano, gli ho raccontato che ero uno zio d’America e che il giorno dopo l’avrei portato in Texas, dove lo aspettava un pony, finché si è addormentato. Il giorno dopo – ovvio – la polizia è venuta dritta a casa mia, ma era giusto così. Quel bambino l’ho incontrato per caso vent’anni dopo: mi ha detto che la madre quell’estate lo portò in Texas per regalargli un pony. E che lui non mi aveva mai dimenticato».