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 2014  febbraio 19 Mercoledì calendario

RHIANNA


Brooklyn, 5 settembre 2013, ore 11,43. Due Suv Escalade dai finestrini oscurati parcheggiano come auto di pattuglia intergalattiche; i motori V8 mantengono, all’interno, la temperatura gelida richiesta dal prezioso carico. Uno è fermo di fronte a un gruppo di capannoni, l’altro è in doppia fila. Benvenuti nella “nuova” Brooklyn, trasformata in centro creativo per professionisti piccolo-borghesi ma hipster, e con la fissa per i cupcake. Stilisti baffuti, micro-birrai tatuati e altri esempi della popolazione locale si radunano davanti ai Fast Ashleys Studios, sbirciano il convoglio hip hop dagli occhiali con la montatura spessa e tornano a fingersi annoiati (è dura stupire la generazione che ha creato la moda delle Crocs e meme virali come Grumpy Cat). Da uno dei veicoli giunge l’eco di una cupa e lenta linea di basso, simile al mormorio del cuore di un robot malvagio.
La portiera anteriore destra dell’auto in mezzo alla strada si schiude, una ciabattina si posa sulla carreggiata. Alla caviglia, la destra, s’intravede una piccola aquila tatuata, le ali protese a forma di pistola. Poi una gamba lunga, affusolata e scura; poi l’altra e un paio di shorts di denim scosciatissimi. Quindi il cappello, non il tipico Borsalino da show business che gli stilisti mettono in testa alle celebrity, bensì uno da pescatore. Rendere sexy il capo meno sexy di ogni tempo è un’impresa. Chi lo indossa rivolge un salutino ai paparazzi con la mano. C’è la breve esplosione di un sorriso ad alto voltaggio, i puntini delle pupille nuotano dentro piscine verdi. All’interno, l’entourage la accoglie con grandi abbracci, mani contro mani e palpate sul sedere.
È arrivata Rihanna. Addirittura in anticipo di due minuti. Quando parla fa le fusa, l’accento delle Barbados arrotonda e allunga le vocali come palme inclinate dalla brezza dell’oceano. È una sirena.
«Vuoi vedere le mie zanne?». Damien Hirst – artista, icona, provocatore, burlone, squartatore di vacche, venditore di morte, You Tubomane, concettualista moderno, rude boy, totem di tutto ciò che è diventata l’arte britannica, affabulatore, genio, ex fumatore, bevitore di Red Bull – è lì in un angolo, con una maglietta grigia, jeans scuri e candide Nike smaglianti. Ha in una mano uno strumento per sabbiare e una lunga protesi di lingua biforcuta in gomma rosa nell’altra. Non smette di sorridere.
Nelle sei ore successive, come in un sogno erotico kubrickiano degenerato, questi due campioni di creatività collaboreranno a un progetto che vede l’artista più ricco e di successo del pianeta fare la parte del tentatore di una Eva che è la più grande star femminile della musica mondiale. Inventeranno scuse, litigheranno, discuteranno, svilupperanno un’idea che, nata mesi prima da un sms, è stata due volte sul punto di non realizzarsi – sms di Hirst a Rihanna: «Non voglio più farlo»; Rihanna a Hirst: «Allora t’ammazzo» – e culminerà con due pitoni (uno di due metri, l’altro di uno e mezzo) avvinghiati intorno al corpo seminudo di lei.
Se il paradiso consiste nell’essere candidamente ignari della propria nudità, mille volte meglio la dannazione eterna.
Science Ltd, Dudbridge, Gloucestershire, 9 settembre. «Il 1988 è l’unico anno che ricordo. E il 1977: ero troppo giovane per diventare punk». Damien Hirst è seduto in un ufficetto, uno spazio bianco all’interno del capannone grande come un hangar che ospita il suo parco-atelier. Ci sono anche un fotografo e una squadra di manipolatori di rettili che blandiscono sei serpenti affinchè si sistemino intorno a un busto bianco: così l’immagine di quella strisciante corona potrà essere sovrapposta ai ritratti di Rihanna, realizzati a New York.
Il 1988 per Hirst fu l’anno zero: in un edificio abbandonato dei Surrey Docks di Londra, organizzò la prima edizione di Freeze, la mostra che sarebbe poi diventata un caposaldo della storia dell’arte contemporanea. C’erano le sue primissime opere e quelle di altri studenti della Goldsmiths University of London. Hirst fu l’animatore, la forza che progettò la manifestazione, l’idea, la missione di trasformarla in realtà. L’energia, lo sprezzo per i protocolli gerarchici – la sconvolgente ostinazione del nuovo – diverranno la cifra stilistica di una generazione di artisti poi affermatasi sotto l’etichetta Young British Artists. Freeze segnò anche il contatto tra il giovane artista accanito fumatore e il versante commerciale: un po’ di successo, l’occhio dei media, i mercanti a caccia, come vendere le opere, come far soldi e sopravvivere.
«Fu importante, certo. Ma non era un piano preordinato per costruire un impero o un marchio», osserva oggi Hirst. In quella mostra espose per cominciare un aggregato di scatole dai vivaci colori a smalto e fini dipingendo a pallini una parete, prima di tornare a studiare per laurearsi. «Non mi interessava diventare famoso. O ricco. Volevo solo fare le mie cose a modo mio». Lavorava come manovale e, guardando quegli omoni che sollevavano mattoni, si rese conto di non essere come loro. «Capii di essere un artista e decisi di provare. Al college andava di moda il minimalismo concettuale. La svolta? Un giorno venne a trovarmi un tutor. Avevo fatto un’enorme quantità di nuovi lavori, dei piccoli collage. li ho strappati tutti in mille pezzi sotto i suoi occhi e li ho ammucchiati sul pavimento con la scopa. Lui domanda: “È un’opera d’arte?”. Sì, ho risposto. Obietta che non l’avevo pensata tanto bene. Dico che proprio questo è il punto. “Be’, ma come hai usato la scopa? Che tipo di scopa? Qual era il tuo fine?”. Era a disagio: io, uno piuttosto aggressivo. Alla fine, mi fa: “Posso dirti quel che vuoi, ma le sole persone interessanti sono quelle che dicono: Vaffanculo, io la penso così”. Rihanna mi piace per questo, ha l’aria di una che dice: “Io la penso così, ‘fanculo”. Ed è davvero sexy».
Lei ha 26 anni. Mentre iniziava a emergere sulla scena mondiale – intorno al 2007, quando dal terzo album Good Girl Gone Bad fu tratto il singolo Umbrella – Robyn Rihanna Fenty volle mettersi in contatto con gli agenti di Hirst per acquistare un’opera. Una gliel’aveva regalata Jay-Z, boss della casa discografica e suo mentore. «Avrà fissato l’appuntamento cinque volte», sorride l’artista di Bristol, «poi non si è fatta vedere. Io ridevo: anch’io ero così ai tempi dei primi successi. Bucavo in serie gli appuntamenti: mi ha ripagato con la mia stessa moneta». Come ai tempi di Freeze, Hirst sfoggia – ma con levità, senza arroganza – pura forza di volontà e perfezionismo; oltre a un’innata capacità di essere chef supremo in una metaforica cucina già stipata di chef supremi. Il suo pensiero? Niente compromessi, niente scorciatoie, vaffanculo.
Nel ruolo di musa, Rihanna, iconica e disinibita, è quanto di meglio si possa desiderare. Ma se il concettualismo moderno ha a che fare con un’idea che si trasforma in macchina che produce l’opera d’arte, Hirst ne rappresenta il pistone, il carburante, l’accensione. Perché Medusa? «Perché è una peste!». Medusa o Rihanna? «Entrambe. E la metterò in formalina perché altrimenti tutti mi domanderanno: “Perché non l’hai messa in formalina?”. Da quattro anni lavoro a una nuova serie di opere intitolata Treasures, tesori. Ci sono dipinti e sculture che raffigurano Medusa. Per finirla ce ne vorranno almeno altri quattro».
Sogghigna. «Lei è tremenda. Si, tremenda tremenda. Il terrore di ogni madre. Quante 14enni fumano erba per via di Rihanna? Milioni, forse. Ma chi sa guidare gli altri è da ammirare: preferirei seguire lei che David Cameron! È una donna forte che aiuta una generazione di donne a prendere coscienza della propria forza. Un modello di comportamento improbabile, ma di gran successo. Non credevo che si sarebbe presentata. Ne sono lusingato».
Hirst è cambiato molto negli ultimi 25 anni: da Freeze, passando per lo squalo in formalina, la mucca sezionata, il gallerista Larry Gagpsian, il mercante d’arte Charles Saatchi e un’asta record da Sotheby’s, arriva fino a GQ. «Sono cambiato, certo», ammette. «Avevo detto di non fidarmi della gente che non fuma; ora non mi fido della gente che fuma. Credevo di essere immortale e ho dovuto ammettere che non lo sono. Fumavo a nastro, non solo tabacco, e non mi limitavo a fumare: ma a un certo punto non riesci più a gestire i postumi. O lo fai per festeggiare o lo fai per fuggire, se non stai festeggiando dacci un taglio. Cosi ho dovuto reimparare a fare tutto da lucido: cenare da lucido, rimorchiare da lucido, scopare da lucido...».
Le ragioni che per lui giustificano l’essere un artista sono sempre uguali, ma l’accoglienza dei suoi lavori e gli acquirenti della sua arte, come i cartellini dei prezzi, sono infinitamente cambiati. L’ultima commessa: 14 mastodontiche sculture che illustrano la gestazione di un feto. Lo stadio finale è la statua di un neonato alta 14 metri. L’opera, intitolata The Miraculous Journey, il viaggio miracoloso, è stata commissionata dalla Qatar Museums Authority e si dice sia costata più di 20 milioni di dollari: le 50 mila sterline pagate da Saatchi per lo squalo tigre imbalsamato sembrano un’elemosina.
«Sto per compiere cinquant’anni e sono ciò contro cui ho lottato tutta la vita», aggiunge. «Sono sicuro che una marea di giovani artisti pensa: “Damien Hirst? Stronzate mainstream!”. Un tempo mi preoccupavo di quello che pensavano di me. Ho smesso. Quando raggiungi un livello come il mio, perdi il contatto. Non è questione di soldi ma di età e di sacro fuoco».
Poi continua: «Lasciare Larry Gagosian è stato importante, ha cambiato il modo in cui guardo sia l’arte in generale sia la mia. Ho sempre voluto fare arte cool con la “C” maiuscola ma iniziavo a deviare: troppa pressione. Dicevano: “Guadagni troppo!” o “Le tue quotazioni sono troppo alte”. Stronzate! Invecchi, le tue opere devono continuare a parlare di te. E a volte perdersi fa bene: è la ricerca della propria strada. Non si tratta solo di realizzare un paio d’opere – la pecora, la vacca, i dipinti rotanti, il teschio – ma di sviluppare un’intera carriera e un corpus di lavori a cui guardare con orgoglio, in punto di morte».
È orgoglioso di For the Love of God, il teschio con diamanti da 50 milioni di sterline? «Oggetto strano, affascinante. Devo ancora finire di farci i conti. E in un caveau in Hatton Garden perché tutto ciò di cui è fatto costa un mucchio di soldi: ogni tanto vado a guardarlo. Ma anche qui, l’importante è lo sviluppo. Non sto a meditarci su pigramente, checché si possa pensare. E come i Beatles. Come Rihanna».